Si racconta che, col finir dell'estate quando i pastori abbandonavano la valle di Vajolètt, le streghe scendessero fino al piano erboso di Ciampedìe, dove intrecciavano le loro danze alla luce della luna. Un giovane di Monzòn, di nome Gordo, fu curioso di vederle ballare. Quando tutti lasciarono la valle egli si nascose in una tobìa (fienile) aspettando. Passata la mezzanotte sbucarono innumerevoli streghe d'orribile aspetto; tra loro la Striona, loro condottiera, che si accorse subito di lui -qui dentro c'e' un uomo! fuori subito!- Gordo rimaneva immobile per la paura -apri o scendiamo dal camino!- egli tremante uscì: lo schernirono, gli tirarono i baffi, infine danzarono attorno a lui selvaggiamente. Poi la Striona lo apostrofò -chi e' la tua regina?- lui non capiva -se non capisci vuol dire che non hai ancora una regina! ne sceglierai una e subito! metti questa corona sul capo di quella che ti piace di più. Dovrai servirla fedelmente e per mezzo suo sarai ammesso alla nostra società- e gli diede una corona di sterpi. Egli non seppe decidersi perchè gli parevano una più brutta dell'altra, cosicchè le streghe andarono su tutte le furie: lo insultarono e picchiarono, poi lo legarono ad un albero ancor con la corona in mano -di qui a un anno sceglierai la tua regina!- Passarono i giorni e nessuno veniva a liberarlo perchè i pastori erano già scesi a valle. Non sentiva fame o freddo, ma a poco a poco il corpo si irrigidiva, la resina lo ricopriva...entro la primavera successiva viveva la vita dell'albero e nessuno avrebbe immaginato che là vi fosse un uomo. Le streghe l'avevano incantato! I pastori parlavano della sua scomparsa, ma lo davano per morto. Solo la piccola Vinella, una ragazza col viso butterato dal vaiolo che faceva la pastorella, non voleva persuadersi ch'egli potesse essere salvato. Una notte si svegliò sentendo delle lugubri grida e andò impaurita a svegliare una vecchia che abitava in malga.-questi urli sono il baèl, il concerto delle streghe! stanno sui Mugoni e gridano verso valle. Nelle notti di plenilunio sembrano impazzite, urlano finchè non scompare la luna dietro le Creppes de Davòi, poi gettano delle ruote di fuoco che finiscono sulle punte di roccia sopra Ciampedìe, dove ardono spargendo odor di bruciato...queste creste si chiamano zigolades (bruciacchiate)...cerchiamo di dormire, chè mezzanotte deve esser già passata- Per tutta l'estate Vinella pensò che avrebbe dovuto chieder direttamente alle streghe qualcosa di Gordo, ma non osava. Guardava volare le gaiòles (ghiandaie) sospirando -sono uccelli intelligenti e vedono tante cose, certamente saprebbero dirmi dov'e' Gordo!- Una sera uno dei pastori arrivò con un sacco pieno di pinoli e lo versò sul tavolo perchè ciascuno potesse prenderne; tutti vollero sapere come aveva fatto a trovarne tanti ed egli raccontò che aveva visto le gaiòles volare spesso attorno a un pino e aveva così scoperto un crepaccio dove c'era la loro provvista invernale. Vinella si impietosì per quelle povere bestiole, ma la derisero tanto da offenderla. A fine serata, quando tutti erano andati a dormire, il pastore che aveva portato il sacco tornò da lei -non esser in collera con me. prendi pure tutti i pinoli rimasti, te li regalo- al mattino Vinella riportò i pinoli al crepaccio e una subito gazza le parlò con voce umana -ti ringrazio e sarai ricompensata: prendi 3 pinoli. Se un giorno vorrai conoscere qualche segreto che le montagne nascondono e gli uomini ignorano mettili nella mano sinistra e guardali fisso. Verrò a spiegarti quel che desideri- Passarono pochi giorni e li usò, raccontando alla ghiandaia la storia di Gordo -udii la storia da un gufo che vola con le streghe. Gordo è in visidàja (morte apparente). Per risvegliarlo bisogna portargli una trosilla, un rododendro bianco che cresce solitario dietro le Porte Nèjgre (Porte Nere) sulle vette del Vaiolòn- poi le disse come trovare l'albero a cui era legato Gordo e le insegnò le parole magiche per rompere l'incantesimo -Gordo è il tuo fidanzato?- chiese infine. La giovane arrossì negando, dicendo che le dispiaceva solo che fosse in balìa delle streghe -dovrai lottare molto. Egli abitava con un'anda (zia) strega, d'accordo con le streghe dei monti!- Quando Vinella e gajòla si salutarono, la giovane si mise all'opera. Trovò il fiore, trovò l'albero e pronunciò l'incantesimo -xide, burte strìes!- (via, brutte streghe)l'albero si spaccò e ne uscì Gordo. Si compiva l'anniversario dell'incantesimo e, prima che Vinella avesse tempo di accorgersene, le mise la corona in capo -ecco la mia regina!- Lei fu così sorpresa che fuggì. A casa tutti l'accolsero con esclamazioni di sorpresa perchè il viso era diventato liscio e bello, mentre gli sterpi della corona erano divenuti d'oro -ti sei fidanzata con un principe? è la più bella zendalina (ghirlanda nuziale) mai vista!chi te l'ha data?- Vinella raccontò l'accaduto e si congratularono. Gordo dopo tanta immobilità era lento e stanco nel camminare, ma giunse a casa dela zia. Le raccontò di aver incoronato Vinella e la zia si arrabbiò -ti ho scelto una giovane vedova di Perra come sposa. Ha un bel mess (fattoria)e la sua centüla (cinto nuziale d'argento) vale quanto 3 mucche, non sceglierai mica una pastorella sfigurata!?!- Al mattino dopo la zia lo spinse fuor dalla porta ingiungendogli di andare a Perra, ma lui andò a Sojàl e si fidanzò con Vinella. Al ritorno raccontò alla zia che Vinella non era più sfigurata e la corona era divenuta d'oro -guardati da lei, perchè è scaltra, pare che abbia relazioni con le streghe! La corona d'oro è una sua illusione: fattela mostrare e pronuncia la formula che ti insegnerò, con la quale si annullano gli incantesimi, allora vedrai!- Gli insegnò una formula delle streghe che distruggeva l'oro, così la corona tornò di sterpi, Vinella e fu desolata e Gordo se ne andò. Si fidava della zia e, nonostante soffrisse per Vinella, finì per rompere il fidanzamento e rivolgere le sue attenzioni per la vedova di Perra. Vinella si disperò e, quando una povera donna bussò a chieder elemosina, dicendo che accettava qualunque cosa, anche senza valore per gli altri, le diede la corona di sterpi. La ragazza voleva stare sola e camminava fino al bosco. Lì incontrò l'amica gajòla con cui si sfogò. -t'avevo detto che avresti dovuto lottare. Hai vinto le streghe della montagna, che ora non si avventurano più sul Ciampedìe, ma le streghe della valle sono più furbe. Gordo crede a quel che gli dicono e corre incontro alla sua rovina! Potresti salvarlo solo conducendono nel tuo luogo natìo. Tu non sei di Sojàl come credi. Eri figlia di una Vivàna (donne dei boschi che conoscono il futuro) delle vette del Larsèc. Uno spirito delle acque trascinò tua madre nei flutti e tu fosti ripescata dal taglialegna che ti fà da padre adottivo. Tu sei del Larsèc!- Vinella le disse di voler rimanere a Sojàl dove aveva sempre vissuto -e questa è la tua disgrazia! non avendo patria non hai forza, non riuscirai a liberare Gordo. Posso darti un solo consiglio. Sulla Pala de Jàcia scorre la Fontèna del omblìa (sorgente dell'oblio), chi ne beve dimentica il passato e ricomincia nuova vita- la condusse attraverso le montagne. Nei punti più disagevoli v'erano degli scalini che le spiegò fossero fabbricati dai Nani per le Vivàne, per una scommessa persa. Subito sotto la cresta scorreva una vena sottile d'acqua freschissima. Come Vinella ne bevve si guardò attorno trasognata. Tornò indietro solo grazie alla guida della ghiandaia. l paese incontrò la madre adottiva che corse ad abbracciarla -ti abbiamo cercata ovunque, Vinella!- ma lei non riconosceva nessuno. Dovette imparare ogni lavoro daccapo, come una bimba. Gordo seppe che era impazzita e ne parlò alla zia. -sta meglio di noi! deve aver bevuto alla sorgente dell'oblìo, comincia una vita nuova e non si sogna nemmeno di te!- Gordo chiese della sorgente e la zia gli disse che era presso la Pala de Jàcia. Lo spronò infine a chieder la mano della vedova e, accorgendosi che non ne aveva voglia, gli diede un filtro magico che rendeva l'uomo per 13 giorni senza volontà di fronte a una donna. Prima di andare a dormire Gordo incontrò una vecchietta che lo pregò di comprar qualcosa. Le diede un soldo e andò in camera con l'oggetto da lei dato. Con stupore si rese conto che era la sua corona! La mise sulla finestra e si coricò, ma si svegliò nella notte per dei rumori e vide un gufo che si sfregava il becco sulle sbarre dell'inferriata. "è una iranumìna" (segno degli spiriti) pensò, ed ecco che la corona si mise a correre su e giù come portata da mille zampe di ragno. Gordo si spaventò tanto che corse nel letto e non osò più guardare fino al mattino. Il giorno dopo, uscendo, incontrò Vinella nei prati e parlandole capì che davvero non lo riconosceva. Non aveva coraggio di tornare a casa, cosi' ogni giorno tornò a incontrare lei finchè tornarono a innamorarsi e parlare di nozze. Quando però i Gordo si presentò dai genitori gli urlarono dietro inferociti e non potè far altro che scappare, rifugiandosi in una capanna. Il giorno dopo incontrò Vinella sulla via -Fermo, gli uomini di Sojal ti tendono agguato! Dicono che sei uno stregone, che fai girar la testa alle ragazze e che mi hai regalato una corona stregata che ora è d'oro, ora di stecchi...anche se io non so nulla di tutto ciò...volevano raccontarmi altro, ma non voglio ascoltarli- Gordo le disse che non ricordava perchè aveva bevuto alla sorgente dell'oblio. -tutti mi dicono così...se fosse vero vorrei che anche tu ne bevessi, così non saresti più malinconico e pensieroso!- Anche Gordo avrebbe voluto e, sapendo dalla zia la zona in cui si trovava, decisero di andarci. Bevvero assieme e d'incanto scordarono la vita trascorsa. Lieti proseguirono la salita, entrando nell'alta valle di Larsèc. Tutto era in fiore e nell'aria tepida v'era un gran silenzio, alte vette e cielo azzurro. Erano felici. Incontrarono infine delle donne dagli abiti verdi: delle Vivàne. Come videro Vinella la riconobbero ed accorsero a salutarla, riempiendola di parole affettuose e carezze -la figlia della povera Doreda rapita dallo Spirito! finalmente sei tornata!- volevano farsi raccontare della sua vita, ma lei sapeva solo che Gordo era il suo fidanzato e niente altro, così capirono che aveva bevuto alla sorgente e li condussero a vivere con loro, fra le rocce frastagliate chiamate Scalirèc, dove abitavano.
Tempo dopo la zia di Gordo andò dai genitori di Vinella, chiedendo del nipote. Nessuno sapeva dove fossero, così si limitò a restituire la corona di sterpi, perchè ogni notte correva per casa sua come un ragno. Una sera i due genitori adottivi incontrarono una Vivana, che parlò loro -Vinella vi saluta e vi ringrazia per quanto fatto, ma non può tornare. Stanotte mettete la corona sul tavolo, diverrà d'oro e d'oro resterà per sempre, così sarete provveduti per la vecchiaia-
Gordo e Vinella restarono sui monti di Larsèc. A volte qualche cacciatore di camosci li scorgeva mentre, seduti al sole, guardavano a valle con aria lieta. Nessun'altra notizie giunse mai agli uomini.
sabato, settembre 30, 2006
venerdì, settembre 29, 2006
- Storiella idiana - La rana del pozzo
Un giorno, nel piccolo pozzo in cui una rana è vissuta tutta la vita, salta una rana che dice di venire dall'oceano.
-Oceano? e cos'è?- chiede la rana del pozzo
-un posto grandissimo!- risponde la nuova giunta.
La rana del pozzo traccia un piccolo cerchio sulla superficie dell'acqua -cosi grande?-
-no, no, molto piu grande!- Al che la rana del pozzo traccia un cerchio più largo -no! di più! molto molto piu grande!-
La rana del pozzo allora traccia un cerchio grande quanto tutto il pozzo che è il mondo da lei conosciuto. -no! ancor più grande! molto di più!- le dice la rana dell'oceano.
-BUGIARDA!- le urla allora la rana del pozzo, e non le rivolge più la parola.
-Oceano? e cos'è?- chiede la rana del pozzo
-un posto grandissimo!- risponde la nuova giunta.
La rana del pozzo traccia un piccolo cerchio sulla superficie dell'acqua -cosi grande?-
-no, no, molto piu grande!- Al che la rana del pozzo traccia un cerchio più largo -no! di più! molto molto piu grande!-
La rana del pozzo allora traccia un cerchio grande quanto tutto il pozzo che è il mondo da lei conosciuto. -no! ancor più grande! molto di più!- le dice la rana dell'oceano.
-BUGIARDA!- le urla allora la rana del pozzo, e non le rivolge più la parola.
mercoledì, settembre 27, 2006
- Leggende delle dolomiti 20 - Gli stregoni del bosco Delamis
Un conte della Pusteria aveva preso in moglie una bellissima donna. I due giovani avrebbero potuto esser la più felice coppia del mondo, se il marito non avesse una gelosia morbosa. La condusse in una valle remota delle Dolomiti per chiuderla in una torre costruita su un'altra roccia. Lui spesso andava via e la lasciava in custodia a una nutrice che la odiava. Un giorno egli partì per la Germania, dicendo che andava a cercare l'arco d'ègues, la migliore delle armi sulla terra. La ragazza chiusa in camera si sedette accanto alla finestra. Passò di lì un venditore veneziano. Rifiutò di veder gioielli e stoffe, ma chiese se avesse mai sentito parlare di questo "arco d'ègues". -non solo ne ho sentito parlare, conosco un minatore del Latemàr che può procurarle l'arma!- le rispose, al che la donna promise una generosa ricompensa se glielo avesse fatto avere, poi si ritrasse in stanza. In camera era però arrivata la nutrice che disse sogghignando -bene, la signora fa conversazione con uomini forestieri! lo dirò al signor conte!- Come l'uomo venne a saperlo perse il lume della ragione e precipitò la moglie nel burrone, tornando ancor fremente di rabbia e dolore. Trovò ad aspettarlo il veneziano, che veniva a portare l'arco -chi vi ha detto che io volessi quest'arma?- chiese perplesso. Dal racconto che il veneziano gli fece capì l'enorme ingiustizia e corse al burrone per cercare almeno il corpo della donna, ma era sparito. Risalendo vide due uomini che cavalcavano verso Alleghe assieme a una donna vestita di bianco. Erano lontani per esser riconosciuti ma al conte venne un sospetto e si incamminò per la via. Chiedendo notizie seppe che andavano verso Zoldo, poi trovò una donna che disse che le sembravano stregoni e avevano la birta odlata (il malocchio), inoltre dovevano aver stregato la giovane, perche teneva il capo chino e non diceva parola...descrisse la ragazza e il conte non ebbe dubbi, era la moglie. Comprò un cavallo e andò al loro inseguimento. Passò il paese dei Peleghètes, poi quello dei Duranni, ma nella pianura veneta perse le loro tracce. Proseguì le ricerce vendendo ogni suo anello e stoffa pregiata, fino a ridursi all'elemosina. Passato un anno tornò indietro, fermandosi a far il pastore per poter mangiare qualcosa. Il contadino gli disse però di non andar nel bosco della Ciada Delàmis perchè infestato da stregoni e fantasmi. Quando il conte finì il lavoro con le pecore però volle provare ad andare. Camminò 2 ore fino a una casa dove lavorava un falegname. Gli fece domande ma non gli rispose e nemmeno lo degnò di uno sguardo. Sarà sordomuto! pensò, così entrò in casa dove, tra mille libri, c'era il padrone di casa a cui chiese un lavoro. L'uomo lo guardò poco rassicurante, ma acconsentì. -ho un orso e un cavallo a cui dovrai tener cura. L'orso è feroce, tanto che è legato a una robusta catena. Il cavallo non vuol bere, ma gli porterai acqua fresca ogni giorno finchè non ti farai ubbidire- Quasi subito capì di vivere tra stegonerie. Di giorno c'era silenzio di tomba, interrotto solo dal martello del falegname, di notte la casa si riempiva di fruscii, sussurri e rumori strani, come se mille animaletti corressero e volassero per ogni angolo della casa, mentre l'orso dava strattoni alla catena da far tremare i muri. Un giorno il padrone dovette partire e diede le chiavi al conte, mostrandogliene una in particolare e dicendo -se non vuoi morire, non entrare nella stanza che si apre con questa chiave- e se ne andò. Egli ne approfittò per capire i segreti di casa. Al tramonto della prima sera notò che tutte le schegge del falegname diventavano topi che entravano in casa, così il giorno dopo le raccolse e le bruciò. Il falegname prese finalmente a parlare, ringraziando di averlo liberato dall'incantesimo e raccontando dei maltrattamenti dei due stregoni della casa. Narrò che un anno prima avevano anche rapito una donna, ma il più giovane dei due la voleva per se e tentò di indurla a fuggire con lui. L'anziano se ne accorse e lo trasformò nell'orso. La dama lo respinse però con sdegno, così fece entrare l'anima di lei nel cavallo, poi versò nell'acqua della fontana una sostanza che, se avesse bevuto, l'avrebbe fatta capitolare. Udito il racconto il conte prese l'acqua da casa e fece bere finalmente il cavallo, poi pianse abbracciandolo, chiedendo perdono e giurando di liberare la moglie. Cercò tra i libri ma erano tutti indecifrabili, solo una frase comprese: "i sassi rompono l'incanto", ma non gli riuscì di capire come. Infine provò a entrare nella stanza vietata. V'era solo un tavolo con un sacco di noci, una spada, uno specchio piccolo e nero, uno piu grande e verde e alcuni gusci d'uovo. Ruppe un guscio e sentì gran fragore, poi la voce della moglie che lo chiamava -la mia anima liberata è sulla criniera del cavallo, ma senza corpo! prendi dalla stanza proibita la spada, il sacco di noci e gli specchi e fuggiamo a cavallo. L'orso ha spezzato la catena e sta per sfondare la porta, mentre lo stregone sta tornando, lo sento! fa presto!- Il conte non perse tempo e fuggì, ma presto si avvide di esser inseguito dallo stregone a dorso dell'orso, che guadagnava terreno. La voce della donna allora gli disse di gettare una noce dietro di sè: si aprì un fosso che ritardò i due e l'operazione venne ripetuta molte volte, inchè si ritrovarono in una valle deserta, ma ancora li inseguivano. Gettò allora lo specchio nero e si creò un lago, ma l'orso lo attraversò a nuoto veloce, mentre il cavallo avanzava piano perchè stremato, allora gettò come ultima risorsa lo specchio verde. L'intera valle dietro loro si fece d'acqua, ritardarono gli inseguitori, ma non li fermarono e li raggiunsero al Pian da Lus. Il conte prese la spada e combattè con lo stregone, ma essa rimbalzava senza ferirlo, come se la pelle del'uomo fosse di corazza, allora tentò di strozzarlo, ma non era abbastanza forte... L'orso intanto inseguiva il cavallo che girava attorno al sasso al centro della piana...ad un tratto un urlo. Il cavallo era stato raggiunto! In quel disperato momento ricordò l'unica frase dei libri che aveva compreso, prese un sasso e schiacciò la testa dello stregone, riprese la spada e con un sol colpo uccise l'orso. Come svegliandosi dall'incubo si rese conto di aver vinto su entrambi gli stregoni, mentre la moglie tornava a lui, bella come era sempre stata. In due giorni furono a casa ad Andràz, egli voleva punire duramente la nutrice ma la moglie dal cuore tenero fece in modo che venisse solo cacciata. La vecchia strega andò ad abiare un'acuta punta rocciosa sopra Falzàrego che ancor oggi si chiama "Sass de Stria" (sasso della strega), mentre gli sposi lasciarono la torre e tornarono in Pusteria, dove vissero felici a lungo.
NOTE - Il racconto della stanza proibita e della fuga interrotta è frequente in molte leggende di popoli europei. Qui gli episodi delle buche e dei laghi potrebbero riferirsi al bosco del Cansiglio e ai vicini Lago Morto e Lago di Santa Croce. Sull'altipiano del Cansiglio v'e' un gran numero di buche chiamate Lame e, in friulano, Lamis. La parola ciàda si conserva nel dialetto di Fassa ed indica un bosco di grandi alberi. La "Ciàda Delàmis" sarebbe quindi "il bosco delle buche", quindi si sarebbero conservate due parole preistoriche nel nome mitologico del Bosco del Cansiglio. Da notare inoltre che il lago di Santa Croce è centro di terremoti, quindi favorevole alla localizzazione di racconti fantastici.
NOTE - Il racconto della stanza proibita e della fuga interrotta è frequente in molte leggende di popoli europei. Qui gli episodi delle buche e dei laghi potrebbero riferirsi al bosco del Cansiglio e ai vicini Lago Morto e Lago di Santa Croce. Sull'altipiano del Cansiglio v'e' un gran numero di buche chiamate Lame e, in friulano, Lamis. La parola ciàda si conserva nel dialetto di Fassa ed indica un bosco di grandi alberi. La "Ciàda Delàmis" sarebbe quindi "il bosco delle buche", quindi si sarebbero conservate due parole preistoriche nel nome mitologico del Bosco del Cansiglio. Da notare inoltre che il lago di Santa Croce è centro di terremoti, quindi favorevole alla localizzazione di racconti fantastici.
- Leggende delle dolomiti 19 - Il genio del torrente
Tanto tempo fa, a nord della conca di Ampezzo dove il torrente Bòite passa sotto il Col Rosà, c'era una isoletta con un mulino. Era un caso fosse lì, perchè a quei tempi i mulini si muovevano ancora a braccia. Il mugnaio aveva una bimba adorata, che giocava sulla riva dell'isola e, nei periodi di secca, entrava in acqua e risaliva la corrente. Fu così che un giorno arrivò fino alla chiusa del torrente Felizòn, una gola stretissima, buia e profonda. Incontrò una vecchina vestita di verde che le disse -che fai qui? non sai che l'acqua si raccoglie sopra di noi e ra poco si precipiterà qui dentro? non perder un minuto, fuggi!- La bimba iniziò a correre. Sentì un fragore tremendo dell'acqua che arrivava e si sentì perduta, ma vide la vecchia che da una roccia le faceva segno di dove arrampicarsi. Si salvò e la donna la portò in una grotta, dove stava un ragazzo -questo è mio figlio,abitiamo nel torrente e l'acqua a volte passa a grande altezza sopra di noi. Per questa volta non arriverà fin qui, non preoccuparti- il torrente non fu però nemmeno mai cosi in secca da permetterle di tornar a casa. Si abituò e affezionò ai nuovi compagni, tanto da non pensar più alla famiglia. Passarono 7 anni, nei quali mugnaio e moglie avevano cercato ovunque la figlia e non si erano rassegnati al crederla morta. Un giorno la donna aveva tinto una pezza di rosso e l'aveva messa a asciugare sullo steccato. Quando nel pomeriggio passò per ritirarla, sentì due voci sottili. Incuriosita si fermò ad ascoltare e guardar da una fessura. Erano due nani che ammiravano la tela -io son tanto vecchio che ricordo ancora quando nella chiusa di Felizòn l'acqua mi copriva appena il piede e molte altre cose ho veduto ma una tela così bella non l'avevo mai vista prima- l'altro rispose -vero, se lo potessi avere me ne tornerei sull'Amariana, dai parenti, e li farei rimanere a bocca aperta!- la moglie si consultò col marito e decisero di preparare 2 piccoli abiti con quella tela, da lasciar sullo steccato. Il giorno dopo i nani tornarono e rimasero stupefatti. Allora il mugnaio, che era nascosto in attesa, uscì fuori e disse che se lo aiutavano a trovar la figlia glieli regalava. I nani lo avrebbero portato sul posto, ma bisognava attender la luna piena. Non accettarono subito vestiti offerti, perchè una volta avuti non sarebbero più tornati...cosi usava tra nani. Nella notte prefissata si incontrarono con l'uomo e lo guidarono attraverso il bosco fino alla chiusa del Felizòn, spiegandogli come scendere fino in fondo -segui la via indicata e troverai tua figlia, ma bada bene di agire sempre lealmente, senza astuzia ne superbia!- il mugnaio non capì il senso delle parole, ma non ci pensò, consegnò i vestiti e andò. Giunto a livello dell'acqua vide una vecchia e un giovane che dormivano sommersi fino al collo nell'acqua e con la testa appoggiata su delle pietre col muschio. Capì che non erano semplici umani, ma non si fermò. Poco sopra vide una giovinetta. nonostante gli anni trascorsi la riconobbe come la figlia e la destò -sono tuo padre, vieni con me, prima che si sveglino i cattivi!- svegliata di sorpresa e ancora trasognata, la ragazza seguì il padre e tornarono a casa. Pareva che la ragazza non ricordasse più nulla della sua fanciullezza e al mattino dopo li pregò di lasciarla tornare alla grotta, con la promessa di tornare però spesso a trovarli, ma genitori pensarono fosse l'influsso di una qualche malìa e non esaudirono il desiderio. Un giorno la mamma trovò una collana verde sotto il cuscino della figlia. Lei raccontò che era un dono dell'uomo del torrente, col quale si era fidanzata. I genitori si spaventarono e studiarono cosa fare per distaccarla dagli spiriti del torrente. Fu deciso che la donna avrebbe gettato nella chiusa di Felizòn le perle verdi e così fece. La collana cadendo fece un fragore tremendo, come se una montagna fosse crollata dentro e la donna turbata se ne andò presto. Giorni dopo stava lavando nell'acqua del Bòite quando comparve la vecchia vestita di verde -ti supplico, lascia tornare tua figlia con me!- la vecchia pregò con umiltà, ma la madre fu irremovibile, finchè la vecchia disse che allora sarebbe venuto il figlio a riprendersi la fidanzata. La madre sentì minaccia in queste parole e rispose -digli pure che torni tra tredici anni!- che era un modo di dire degli ampezzani per intendere "mai". Tempo dopo diedero la figlia in moglie a un giovane che venne ad abitare con loro. Il tempo passava, la madre morì e la figlia ebbe due bimbi. Un giorno arrivò un forestiero vestito di verde che chiedeva di esser assunto come garzone e gli uomini lo accolsero, mentre la figlia era in visita da parenti. Chiesero che sapesse del lavoro del mugnaio ed egli rispose di non saperne nulla -..ma sono forte e resistente alla fatica, specialmente in acqua. Attaccate la ruota a un palo che arrivi fino all'acqua e io farò girare la ruota per 16 ore al giorno, senza riposo!- i due erano divertiti dalla propostae lo derisero, ma decisero di provare. Avrebbe lavorato 16 ore al gorno, paga ogni 7, un giorno libero. Così accadde e con lui producevano 3 volte tanto, facendo affari d'oro. Quando la ragazza tornò coi figli riconobbe subito l'uomo del torrente. Turbata non ne fece parola con nessuno ma da quel giorno evitò di entrare nel mulino e impedì ai figli di avvicinarsi. Un giorno di pioggia accadde che la canna di sbocco della grondaia che gli ampezzani chiamano "sala", avendo deviato, lanciò il getto d'acqua sul viso del garzone che gridò aiuto -rimettete a posto la "sala", non posso sopportare il getto d'acqua! mi fa male! mi itene prigioniero, liberatemi!- il mugnaio stava per spinger via la canna, quando si rese conto che il giovane, agitandosi, faceva andar la ruota molto più veloce! Non fece niente per lui e, trascorse le 16 ore, il garzone ancora macinava, urlando pietà per il getto che lo teneva prigioniero. Suocero e genero si resero conto di averlo in loro potere e decisero che avrebbero badato giorno e notte al mulino dandosi il cambio per non smettere mai, senza paga e senza giorno libero. Quando la pioggia cessò costruirono un condotto dal fiume al tetto, così da tenerlo prigioniero. Erano felici del guadagno e cantavano al poveretto una canzone derisoria
"in un filo sottile scende l'acqua
e tu macina, e tu macina.
Sìa a torto, sia a ragione,
la libertà non te la diamo più!"
Quando il garzone comprese che era inutile lamentarsi non disse più una parola e lavorò per mesi...anni...tanto che nessuno si ricordava più di lui. Ormai pareva naturale che la ruota si muovesse senza posa. In una notte d'estate i bimbi si svegliarono piangendo come per un brutto sogno. Quando la mamma riuscì ad addormentarli, sentì cantare. Una voce strana, simile a gorgoglìo d'acqua
"viene l'acqua in onda larga
voi aspettate, aspettate.
In tredici anni la parola scade
e la mia sposa porto via"
Al mattino decise di parlare al padre, chiedendo di liberar il garzone e mandarlo via con le buone, ma le risposero che era una sciocca. Lei non si poteva dar pace e andò al mulino. Come lui la vide pregò di togliere la "sala" e lei lo fece. Finalmente libero l'uomo balzò sulla sponda e rizzandosi apparve come un gigante, così grande che il suo capo era più alto del tetto. Lei era terrorizzata ma le fece capire di non temere e si gettò nel torrente, lo attraversò e sparì nel bosco. La ruota dopo anni si era fermata ed il mugnaio andò in collera. Non riuscirono più a rimetter in moto la macina. Intanto il cielo si copriva di nuvole -si prepara una tampestàda (tempesta) e visto che qui non abbiamo più da fare, meglio se ci incamminiamo con i sacchi di farina verso Miljèra prima che piova!- Quando partirono col carretto videro sulle cime del Pomagagnòn una nuvola a forma di imbuto, piccola e nera -una "godàra", brutto segno, andiam veloci!- arrivarono a Miljèra che gia cadevano le prime gocce. Volevano attendere la fine del temporale ma, dopo molte ore, arrivò un ragazzo dicendo che il Bòite era in piena. Preoccupati per la ragazza e i bimbi tornarono sotto la pioggia. Il ponte non c'era più, travolto, così corsero a chieder aiuto al villaggio, da dove vennero uomini e donne con corde e arnesi. La ragazza intanto era sul tetto della casa per salvarsi dalla corrente. L'unico mezzo per salvarli era che un uomo legato alla corda li raggiungesse e portasse in salvo tirato indietro dagli aiuti e volle andare il marito stesso. Al primo giro prese i due bimbi, urlò ai paesani di tirare e arrivarono sani e salvi a riva. Subito si rigettò in acqua. Questa volta passò molto tempo e non si sentì più l'uomo chiamar indietro, così che i paesani decisero di tirare la corda a riva. L'uomo non era morto, ma sfinito. Due volte aveva attraversato il torrente senza trovare più il mulino. Nessuno ebbe coraggio di ritentare la traversata, mentre il Bòite continuava a salire. Alle luci dell'alba si vide che il torrente aveva inondato l'isola e trascinato via mulino e casa. Il torrente passava scrosciando, gonfio di minaccia, simile a un gigante infuriato.
"in un filo sottile scende l'acqua
e tu macina, e tu macina.
Sìa a torto, sia a ragione,
la libertà non te la diamo più!"
Quando il garzone comprese che era inutile lamentarsi non disse più una parola e lavorò per mesi...anni...tanto che nessuno si ricordava più di lui. Ormai pareva naturale che la ruota si muovesse senza posa. In una notte d'estate i bimbi si svegliarono piangendo come per un brutto sogno. Quando la mamma riuscì ad addormentarli, sentì cantare. Una voce strana, simile a gorgoglìo d'acqua
"viene l'acqua in onda larga
voi aspettate, aspettate.
In tredici anni la parola scade
e la mia sposa porto via"
Al mattino decise di parlare al padre, chiedendo di liberar il garzone e mandarlo via con le buone, ma le risposero che era una sciocca. Lei non si poteva dar pace e andò al mulino. Come lui la vide pregò di togliere la "sala" e lei lo fece. Finalmente libero l'uomo balzò sulla sponda e rizzandosi apparve come un gigante, così grande che il suo capo era più alto del tetto. Lei era terrorizzata ma le fece capire di non temere e si gettò nel torrente, lo attraversò e sparì nel bosco. La ruota dopo anni si era fermata ed il mugnaio andò in collera. Non riuscirono più a rimetter in moto la macina. Intanto il cielo si copriva di nuvole -si prepara una tampestàda (tempesta) e visto che qui non abbiamo più da fare, meglio se ci incamminiamo con i sacchi di farina verso Miljèra prima che piova!- Quando partirono col carretto videro sulle cime del Pomagagnòn una nuvola a forma di imbuto, piccola e nera -una "godàra", brutto segno, andiam veloci!- arrivarono a Miljèra che gia cadevano le prime gocce. Volevano attendere la fine del temporale ma, dopo molte ore, arrivò un ragazzo dicendo che il Bòite era in piena. Preoccupati per la ragazza e i bimbi tornarono sotto la pioggia. Il ponte non c'era più, travolto, così corsero a chieder aiuto al villaggio, da dove vennero uomini e donne con corde e arnesi. La ragazza intanto era sul tetto della casa per salvarsi dalla corrente. L'unico mezzo per salvarli era che un uomo legato alla corda li raggiungesse e portasse in salvo tirato indietro dagli aiuti e volle andare il marito stesso. Al primo giro prese i due bimbi, urlò ai paesani di tirare e arrivarono sani e salvi a riva. Subito si rigettò in acqua. Questa volta passò molto tempo e non si sentì più l'uomo chiamar indietro, così che i paesani decisero di tirare la corda a riva. L'uomo non era morto, ma sfinito. Due volte aveva attraversato il torrente senza trovare più il mulino. Nessuno ebbe coraggio di ritentare la traversata, mentre il Bòite continuava a salire. Alle luci dell'alba si vide che il torrente aveva inondato l'isola e trascinato via mulino e casa. Il torrente passava scrosciando, gonfio di minaccia, simile a un gigante infuriato.
- Leggende delle dolomiti 18c - i figli del sole:Cian Bolpin
Cian Bolpìn, cacciato da castello, vagò fino a Canazèi. Il Comune ebbe bisogno di un pastore e gli affidò questo incarico, come era stato del padre prima di lui. Il Regolàn (capo del comune) gli disse -Quest'anno le pecore andranno sotto il Sass de Salèi e nella Val di Lastìes. Fai un giro lassù per conoscere i luoghi- Egli andò e, tra le rocce a picco, vide uno praticello che pareva inaccessibile. Lì comparve una ragazza vestita d'azzurro, con della biancheria tra le braccia. Stese la biancheria nell'erba, poi scomparve in un passaggio invisibile. Cian Bolpìn fu tanto sorpreso che volle curiosare. Per sette ore si arrampicò tra le rocce fino a trovarsi in un prato grande e bello. Alcune porte, tagliate nella roccia, erano aperte su corridoi che conducevano nell'interno della montagna. La ragazza tornò e fu meravigliata più di lui nel vederlo lassù, dicendogli che era quasi impossibile arrivar fin lì, volle veder la mano e mostrava stupore nel veder i suoi segni -la vostra mano è piena di contraddizioni. C'è una linea di volpe e una di cane, ma questa è una linea di principe e...e una linea di Sole! una grande fortuna! vado a chiamare Donna Chenina! è la padrona di questo palazzo e di tutta la montagna; non vuol veder nessuno, ma mi ha detto di chiamarla se viene un uomo con la linea del Sole, perchè predestinato a esser suo sposo! sarete sorpreso quando vedrete Donna Chenina, poichè è la donna più bella che si possa vedere!- Nel palazzo c'erano molte cose strane, tra cui dei vasi in argento, riempiti di terra, nei quali crescevano fiori grandi e di bellissimi colori, inoltre il palazzo era pieno di buchi larghi e tondi, eppure non soffiava il vento. I due si sposarono davvero. Vissero felici, fino quando Cian Bolpìn non iniziò a far sogni strani: era travolto da una valanga che, d'improvviso, si spaccava. Ne usciva donna Chenina e gli dava la mano portadolo fuori dalla neve, che si riempiva dei fiori bellissimi dei vasi d'argento.
Raccontò il sogno alla moglie, ma lei rispose che doveva solo aver avuto freddo. Una notte, in un sogno simile, ebbe tanto freddo che si svegliò. Si ritrovò a dormire in un letto di neve che pareva caduta di fresco. Fece per balzarne fuori, quando donna Chenina gli mise una mano sugli occhi e disse -dormi, maritino mio, dormi- ed egli cadde in un sonno profondo. Quando si svegliò la moglie lo burlò, volendo fargli credere che avesse sognato. Egli capì che c'eran strani misteri e promise di non dir più nulla, ma osservare attento. Ancora una volta si svegliò di notte e vide che anche al posto dei fiori c'era solo neve e ghiaccio. A un tratto si sollevò gran rumore di vento furioso, che fece tremare l'intero palazzo...ma la moglie si svegliò e disse le parole che lo fecero riaddormentare. Da quel giorno Cian Bolpìn visse a disagio nel palazzo e gli venne nostalgia tanto che manifestò il desiderio di scendere a Mortìz e Canazèi per rivedere i conoscenti. Donna Chenina provò a farlo desistere, ma capì che era ormai un chiodo fisso, così prima di lasciarlo andare gli dovette parlare -So che sei di cattivo umore perchè non ti spiego i segreti della casa, ma sono tanto semplici che ne resteresti deluso e volevo risparmiarti questa delusione. Vai pure a valle, ma avrai grande dispiacere, perchè coloro che conoscevi sono morti da un pezzo. Tu sei stato con me più di quel che credi- Cian Bolpìn fu meravigliato -son salito al principio dell'estate ed essa non è ancor finita, non saran passati più di 2 mesi!- ma donna Chenina sorrise -ogni notte lassù dura 9 mesi. Dormiamo per 3 stagioni e siamo svegli d'estate. Ecco perchè credi che sia sempre la stessa estate. Se ancor vuoi andare, prendi questo anello: se non troverai la strada gettalo in aria e ti sarò vicina- Cian Bolpìn partì lo stesso. Nuove case, nuove genti..solo una vecchina ricordò la storia d'un pastore col suo nome che s'era perso sulla montagna e mai più ritrovato. Passò per Mortìz dove era giorno di festa e i giovani lo convinsero a unirsi a loro. I ragazzi iniziarono a parlare di donne e ogni fidanzato o giovane sposo sosteneva che la sua fosse la più bella della valle. La discussione si fece accesa. Insistevano anche con lui che esordì con una frase infelice -ringraziate il cielo se mia moglie non scende dal Sass de Salèi, perchè perdereste tutte le vostre scommesse!- Detto questo lo stuzzicarono e vilipesero finchè lui, esausto, lanciò in aria l'anello. Subito tutti dimenticarono le scommesse e restarono estatici davanti l'apparizione di più che umana bellezza, ma lei si infuriò -poichè mi chiami per mettermi in mostra, riprendo l'anello!- glielo tolse e si allontanò. Cian Bolpìn provò e riprovò a tornar per la strada della prima volta, ma non gli riuscì di arrampicarsi. Allora andò per prati e boschi, cercando chi potesse indicargli la via. Una sera fu colto da un temporale sul Costòn de Santaria e si rifugiò in un boschetto di barànce (pini di alta montagna); sentì delle voci e vide 3 strane e selvagge figure, circondate da fiammelle verd'azzurro che saltellavano loro intorno. Pensando fossero Numes (stregoni) si allontanò riparandosi altrove. Ancor sentì parlare. S'era rifugiato poco in là un cacciatore coi 2 cani e, avendo Cian Bolpìn vissuto coi cani, capiva cosa questi dicessero. -Certo i Tarluières sono in giro a quest'ora, vedrai che tra poco brucerà qualcosa! Loro son fortunati, non han bisogno di zampettare tra i sassi: prendono lo snigolà e volano- diceva il cane più vecchio, mentre il giovane chiedeva che fosse lo snigolà. -non sai? è un mantello che serve a volare. Lo indossano quando vogliono appiccare fuoco da qualche parte. Se il nostro padrone l'avesse, in un momento saremmo tutti a casa. Quando un Tarluièr torna dalle sue gite si toglie lo snigolà e racconta ai compagni le sue prodezze. Allora sarebbe facile prendergli il mantello e volar via, ma gli uomini non sanno quale sia il momento buono!- Subito Cian Bolpìn decise di impadronirsene. Proprio quando arrivò sul luogo arrivava un Tarluièr che gettò il mantello su un cespuglio e raccontò di aver scagliato un fulmine su Pian de Ciampedèl. Lui ne approfittò. si avvolse nel mantello e veloce pensò -voglio esser a Canazèi- e si sentì portare attraverso l'aria, veloce come un fulmine, in paese. Provò diversi luoghi, ma quando chiedeva del palazzo di Donna Chenina non succedeva nulla. Passarono 9 mesi. In un giorno d'estate si mise a parlare con una famiglia di volpi e raccontò del mantello. La madre gli disse allora che lo snigolà porta solo nei posti di cui si dice chiaramente il nome, ma lui non sapeva in che luogo fosse il palazzo di donna Chenina! Ancora il giovane vagò per prati e boschi, chiedendo se qualcuno conoscesse quel luogo. Un giorno, attraversando il Ru de Jetries, riconobbe un Morchie (un nano). Sapendo della saggezza dei Morchies lo raggiunse e gli chiese del luogo. Egli non lo sapeva, ma gli diede un suggerimento -Aspetta un grosso temporale e sali sulla Risola; probabilmente vedrai salire il Mòrtoj (un fantasma): come lo vedi corrigli dietro mentre sale sulle rocce finchè non sparisce. Forse scoprirai qualcosa-
Cian Bolpìn seguì il consiglio. Nel temporale vide una forma confusa e rossastra levarsi sopra le cime degli alberi. Aveva forma di una bena,una carrozza a cesta, nella quale si aprivano molti occhi di fuoco. Solo all'alba il temporale si placò e il ragazzo potè vedere di essere sulla Costa dal Vent, di fronte a Sass de Pordòi. Si arrampicò ancora, trovandosi in una gheba, un ammasso di nubi dense e lì, tra le rocce, scovò una rozza porta in legno di tronchi d'albero. L'aprì con sforzo e entrò in una caverna dove c'era una gigante donna -che fai, piccolo uomo!? mio marito è il Gigante delle tempeste e sta per tornare!- infatti s'udì un fragore d'uragano ed egli arrivò. Prima che potesse dir male, il ragazzo gli disse che sapeva volare e voleva entrar a suo servizio, così fu messo alla prova: -gli uomini di Mortìz sono in lite per una piccola striscia di bosco, noi l'abbatteremo! andrai avanti e comincerai- il ragazzo volò li, afferrò gli alberi per le cime e li strappò uno per uno, tant'è che quel luogo si chiama ancor oggi Pian de Fratàces, Campo degli alberi spezzati.
-la prossima volta dovrò andare da donna Chenina, ma non potrò portarti con me, perche non vuol veder nessuno. C'è molto da fare perchè il palazzo è pieno di neve e ghiaccio. Devo far sgelare tutto e assicurarmi che la casa torni asciutta e pulita- andarono a dormire, ma presto la moglie del Gigante, gelosa, svegliò il ragazzo -mio marito sta per partire. attaccati al calcagno, ti porterà con se senza accorgersene. Dimmi cosa vedi e al ritorno mi racconterai tutto!- Così Cian Bolpìn riuscì a raggiunger il palazzo e si nascose nella camera di Donna Chenina. Si alzò un vento caldo che soffiando a turbine faceva sollevare un polverìo di neve che si scioglieva, mentre le acque scorrevan via dai fori dei pavimenti e tutto fu asciutto, mentre i fiori nei vasi d'argento cominciarono ad aprirsi. Tutto tornò come le tepide e tranquille giornate in cui si svegliava felice accanto alla moglie e, al pensiero, prese uno dei vasi e lo pose vicino al letto di lei, tornando poi a nascondersi. Lei si destò e, vedendo i fiori, si mise a parlare tra sè a meza voce -ah, son proprio i fiori che più di tutti piacevano a Cian Bolpìn, che sarà di lui? in realtà mi ha mandato in collera una unica volta e gli uomini non possono esser perfetti...da solo non troverà mai la strada, dovrei cercarlo...- allora lui saltò fuori esclamando -sono qui! ho trovato da solo la strada per tornar da te!- lei lo accolse con gran gioia e, da allora, vissero insieme felici, lontani dal resto del mondo.
Raccontò il sogno alla moglie, ma lei rispose che doveva solo aver avuto freddo. Una notte, in un sogno simile, ebbe tanto freddo che si svegliò. Si ritrovò a dormire in un letto di neve che pareva caduta di fresco. Fece per balzarne fuori, quando donna Chenina gli mise una mano sugli occhi e disse -dormi, maritino mio, dormi- ed egli cadde in un sonno profondo. Quando si svegliò la moglie lo burlò, volendo fargli credere che avesse sognato. Egli capì che c'eran strani misteri e promise di non dir più nulla, ma osservare attento. Ancora una volta si svegliò di notte e vide che anche al posto dei fiori c'era solo neve e ghiaccio. A un tratto si sollevò gran rumore di vento furioso, che fece tremare l'intero palazzo...ma la moglie si svegliò e disse le parole che lo fecero riaddormentare. Da quel giorno Cian Bolpìn visse a disagio nel palazzo e gli venne nostalgia tanto che manifestò il desiderio di scendere a Mortìz e Canazèi per rivedere i conoscenti. Donna Chenina provò a farlo desistere, ma capì che era ormai un chiodo fisso, così prima di lasciarlo andare gli dovette parlare -So che sei di cattivo umore perchè non ti spiego i segreti della casa, ma sono tanto semplici che ne resteresti deluso e volevo risparmiarti questa delusione. Vai pure a valle, ma avrai grande dispiacere, perchè coloro che conoscevi sono morti da un pezzo. Tu sei stato con me più di quel che credi- Cian Bolpìn fu meravigliato -son salito al principio dell'estate ed essa non è ancor finita, non saran passati più di 2 mesi!- ma donna Chenina sorrise -ogni notte lassù dura 9 mesi. Dormiamo per 3 stagioni e siamo svegli d'estate. Ecco perchè credi che sia sempre la stessa estate. Se ancor vuoi andare, prendi questo anello: se non troverai la strada gettalo in aria e ti sarò vicina- Cian Bolpìn partì lo stesso. Nuove case, nuove genti..solo una vecchina ricordò la storia d'un pastore col suo nome che s'era perso sulla montagna e mai più ritrovato. Passò per Mortìz dove era giorno di festa e i giovani lo convinsero a unirsi a loro. I ragazzi iniziarono a parlare di donne e ogni fidanzato o giovane sposo sosteneva che la sua fosse la più bella della valle. La discussione si fece accesa. Insistevano anche con lui che esordì con una frase infelice -ringraziate il cielo se mia moglie non scende dal Sass de Salèi, perchè perdereste tutte le vostre scommesse!- Detto questo lo stuzzicarono e vilipesero finchè lui, esausto, lanciò in aria l'anello. Subito tutti dimenticarono le scommesse e restarono estatici davanti l'apparizione di più che umana bellezza, ma lei si infuriò -poichè mi chiami per mettermi in mostra, riprendo l'anello!- glielo tolse e si allontanò. Cian Bolpìn provò e riprovò a tornar per la strada della prima volta, ma non gli riuscì di arrampicarsi. Allora andò per prati e boschi, cercando chi potesse indicargli la via. Una sera fu colto da un temporale sul Costòn de Santaria e si rifugiò in un boschetto di barànce (pini di alta montagna); sentì delle voci e vide 3 strane e selvagge figure, circondate da fiammelle verd'azzurro che saltellavano loro intorno. Pensando fossero Numes (stregoni) si allontanò riparandosi altrove. Ancor sentì parlare. S'era rifugiato poco in là un cacciatore coi 2 cani e, avendo Cian Bolpìn vissuto coi cani, capiva cosa questi dicessero. -Certo i Tarluières sono in giro a quest'ora, vedrai che tra poco brucerà qualcosa! Loro son fortunati, non han bisogno di zampettare tra i sassi: prendono lo snigolà e volano- diceva il cane più vecchio, mentre il giovane chiedeva che fosse lo snigolà. -non sai? è un mantello che serve a volare. Lo indossano quando vogliono appiccare fuoco da qualche parte. Se il nostro padrone l'avesse, in un momento saremmo tutti a casa. Quando un Tarluièr torna dalle sue gite si toglie lo snigolà e racconta ai compagni le sue prodezze. Allora sarebbe facile prendergli il mantello e volar via, ma gli uomini non sanno quale sia il momento buono!- Subito Cian Bolpìn decise di impadronirsene. Proprio quando arrivò sul luogo arrivava un Tarluièr che gettò il mantello su un cespuglio e raccontò di aver scagliato un fulmine su Pian de Ciampedèl. Lui ne approfittò. si avvolse nel mantello e veloce pensò -voglio esser a Canazèi- e si sentì portare attraverso l'aria, veloce come un fulmine, in paese. Provò diversi luoghi, ma quando chiedeva del palazzo di Donna Chenina non succedeva nulla. Passarono 9 mesi. In un giorno d'estate si mise a parlare con una famiglia di volpi e raccontò del mantello. La madre gli disse allora che lo snigolà porta solo nei posti di cui si dice chiaramente il nome, ma lui non sapeva in che luogo fosse il palazzo di donna Chenina! Ancora il giovane vagò per prati e boschi, chiedendo se qualcuno conoscesse quel luogo. Un giorno, attraversando il Ru de Jetries, riconobbe un Morchie (un nano). Sapendo della saggezza dei Morchies lo raggiunse e gli chiese del luogo. Egli non lo sapeva, ma gli diede un suggerimento -Aspetta un grosso temporale e sali sulla Risola; probabilmente vedrai salire il Mòrtoj (un fantasma): come lo vedi corrigli dietro mentre sale sulle rocce finchè non sparisce. Forse scoprirai qualcosa-
Cian Bolpìn seguì il consiglio. Nel temporale vide una forma confusa e rossastra levarsi sopra le cime degli alberi. Aveva forma di una bena,una carrozza a cesta, nella quale si aprivano molti occhi di fuoco. Solo all'alba il temporale si placò e il ragazzo potè vedere di essere sulla Costa dal Vent, di fronte a Sass de Pordòi. Si arrampicò ancora, trovandosi in una gheba, un ammasso di nubi dense e lì, tra le rocce, scovò una rozza porta in legno di tronchi d'albero. L'aprì con sforzo e entrò in una caverna dove c'era una gigante donna -che fai, piccolo uomo!? mio marito è il Gigante delle tempeste e sta per tornare!- infatti s'udì un fragore d'uragano ed egli arrivò. Prima che potesse dir male, il ragazzo gli disse che sapeva volare e voleva entrar a suo servizio, così fu messo alla prova: -gli uomini di Mortìz sono in lite per una piccola striscia di bosco, noi l'abbatteremo! andrai avanti e comincerai- il ragazzo volò li, afferrò gli alberi per le cime e li strappò uno per uno, tant'è che quel luogo si chiama ancor oggi Pian de Fratàces, Campo degli alberi spezzati.
-la prossima volta dovrò andare da donna Chenina, ma non potrò portarti con me, perche non vuol veder nessuno. C'è molto da fare perchè il palazzo è pieno di neve e ghiaccio. Devo far sgelare tutto e assicurarmi che la casa torni asciutta e pulita- andarono a dormire, ma presto la moglie del Gigante, gelosa, svegliò il ragazzo -mio marito sta per partire. attaccati al calcagno, ti porterà con se senza accorgersene. Dimmi cosa vedi e al ritorno mi racconterai tutto!- Così Cian Bolpìn riuscì a raggiunger il palazzo e si nascose nella camera di Donna Chenina. Si alzò un vento caldo che soffiando a turbine faceva sollevare un polverìo di neve che si scioglieva, mentre le acque scorrevan via dai fori dei pavimenti e tutto fu asciutto, mentre i fiori nei vasi d'argento cominciarono ad aprirsi. Tutto tornò come le tepide e tranquille giornate in cui si svegliava felice accanto alla moglie e, al pensiero, prese uno dei vasi e lo pose vicino al letto di lei, tornando poi a nascondersi. Lei si destò e, vedendo i fiori, si mise a parlare tra sè a meza voce -ah, son proprio i fiori che più di tutti piacevano a Cian Bolpìn, che sarà di lui? in realtà mi ha mandato in collera una unica volta e gli uomini non possono esser perfetti...da solo non troverà mai la strada, dovrei cercarlo...- allora lui saltò fuori esclamando -sono qui! ho trovato da solo la strada per tornar da te!- lei lo accolse con gran gioia e, da allora, vissero insieme felici, lontani dal resto del mondo.
- Leggende delle dolomiti 18b - i figli del sole:Soreghina
Viveva solo nel sole. Di notte o nelle giornate buie cadeva in profondo sonno la principessa Soreghina. Una indovina predisse addiritura che, se si fosse lasciata coglier sveglia dalla mezzanotte, sarebbe morta sul colpo. Di giorno invece doveva prender quanto più sole e aria possibile e fu in una di queste passeggiate che trovò un gerriero svenuto tra i crepacci. Egli era Ey de Net (occhio di notte) un guerriero dei Duranni mandato in esilio per aver preteso la mano di una principessa. Soreghina lo curò di nascosto in una capanna. Passò il tempo, andando a trovarlo alla capanna prendeva luce e aria e si sentiva meglio ed anche lui guarì. Giunse il tempo in cui si decise a parlare al padre e gli disse di amare il giovane. Il re era contrariato, ma vedendola così sana e forte dovette acconsentire. I due abitarono in una capanna nel punto più soleggiato e vivevano felici. sopratutto verso il Mezzogiorno Soreghina era vitale e allegra e la sera gia aspettava il nuovo giorno con impazienza, perchè la sua forza veniva dal sole. Una sera arrivò un guerriero amico di Ey de Net e lasciò soli i due amici che parlassero indisturbati. Era una serata nuvolosa e nera, così lei si ritirò in camera sua. A volte sentiva qualche parola dei due uomini su vecchie avventure e fatti di guerra, ma ad un tratto sentì che le voci si abbassavano molto. Immaginò subito parlassero di lei e fu curiosa, così si fermò dietro la porta ad ascoltare. Allora sentì che i due la elogiavano, ma dopo alcuni discorsi Ey de Net ammise che a lei doveva ogni riconoscenza e devozione...ma nel suo cuore portava indelebile l'immagine di Dolasilla, la principessa per il quale gli era toccato l'esilio. Era un segreto che non aveva mai rivelato e scoprì che gli pesava più di quanto immaginasse, ma i due parlarono ancora per molte ore, prima di congedarsi.
Allora Ey de Net aprì la porta per andare alle camere, ma Soreghina gli cadde in braccio. Mentre stava li ad ascoltarli l'aveva colta sveglia la Mezzanotte e aveva spento la sua anima luminosa. Ey de Net stringendola tra le braccia gridò di dolore e chiese disperatamente perdono.
Allora Ey de Net aprì la porta per andare alle camere, ma Soreghina gli cadde in braccio. Mentre stava li ad ascoltarli l'aveva colta sveglia la Mezzanotte e aveva spento la sua anima luminosa. Ey de Net stringendola tra le braccia gridò di dolore e chiese disperatamente perdono.
- Leggende delle dolomiti 18a - i figli del sole: Elba
A oriente di Canàzei v'era un piccolo lago nel quale si specchiava il monte Vernèl. Un lago misterioso con l'acqua chiara e fredda, come l'argento liquefatto, tanto che si parlava di un tesoro di argento e si vedevano i nani arrampicarsi sulle rive o nuotarci. In una piccola ansa v'era una barca sdrucita, che faceva acqua da tutte le parti, ma a volte, a mezzogiorno, una sconosciuta vestita di bianco vi saliva e remava per il lago. Nessun sapeva come facesse, ma si vedeva di rado perchè veniva nell'ora in cui tutti andavano a pranzo. Una vecchietta che tagliava l'erba e lavorava anche a quell'ora riuscì ad avvicinarla e chiederle di lei. La ragazza disse di chiamarsi Elba e di essere una figlia del Sole. La vecchia corse a raccontarlo a tutta la gente di Canàzei, dicendo che era di grande bellezza e da maniere nobili da principessa, così destò l'interesse di un re, che aveva regno dal bosco di Pecedàz fino al monte Malignòn. Egli era vedovo e la chiese in sposa ma lei aveva sentito parlare della sua crudeltà e rifiutò. Per tutto l'autunno e l'inverno non fu vista più, ma tornò in primavera. Conobbe il più povero pastore di Canàzei che pascolava lì il suo gregge. Un pastore che avevano scovato, ancor bimbo, in una tana di volpe e avevano quindi chiamato Bolpìn. La vecchia si accorse della simpatia tra i due e iniziò a tesser le lodi di lui, dicendo che doveva esser figlio di una buona famiglia del paese dei Cajùtes con un padre che per gelosia uccise la moglie e abbandonò il figlio. Elba fu impressionata dalla storia e volle portar un po di luce nella vita di lui. ben presto si sposarono e abitarono in una capanna sulla riva del lago. Solo un anno felice trascorse, perchè il re lo seppe e andò con una schiera armata. Invano Elba chiese pietà, mostrandogli anche il bimbo di solo 1 mese. Uccisero Bolpin e portarono via lei col bimbo, rinchiudendoli nella torre del castello. Solo dopo 3 anni il re la chiamò e le chiese se ora volesse diventar regina. Lei rispose che preferiva la prigione a vita, piuttosto che esser moglie di un assassino. -se il padre è stato tra le volpi, il figlio può star coi cani!- sentenziò il re e mandò il figlio a vivere coi cani, mentre lei fu rinchiusa in un carcere più buio e stretto. Gli scudieri iniziarono a chiamarlo quindi Cian Bolpìn (cane volpino). Passò del tempo ma il re poteva solo infuriarsi perchè Elba si adattava alla situazione..allora la chiamò di nuovo a sè -decidi una volta per tutte! o diventi regina e crescero' tuo figlio come principe, o torni in cella per sempre e abbandono tuo figlio nel bosco!- messa alle strette Elba acconsentì ma da quel giorno fu triste e, nonostante libera, quando veniva il sole passava le giornate nella prigione, parlandogli come si parla a un essere umano, chiamandolo "Soreghina" (figlio di Sole). Un giorno disse al re -quando tornerà l'estate avrai un tuo figlio. ma rinuncerai a me- Nacque una bimba che la madre chiamò Soreghina, ma il giorno dopo parlò di nuovo al re -la mia vita terrestre è finita e io torno nel Sole, ma i miei figli devo lasciarli qui. Se tu tratti bene mio figlio, anche Soreghina starà bene.Se lo frai soffrire io manderò dal regno dei morti la Mezzanotte silenziosa, che porti via tua figlia- Elba morì ma le buone intenzioni del re durrono poco. Osservava con dispetto come il ragazzo era sempre più forte e vigoroso mentre Soreghina cresceva debole. Un giorno preso da rabbia nel saper la figlia ancor una volt malata alzò il frustino su Cian Bolpìn e lo cacciò nel bosco.
- Leggende delle dolomiti 17 - Il selvaggio di Pontives
Per andare in Val Gardena, passando sul monte Lajòn e lungo il torrente Derzòn, bisogna attraversare una frana caduta giù da Rasciesa, chiamata Ròa de Puntives. Un ammasso confuso di grosse pietre e alberi che nascono tra i crepacci. Tra i macigni vi è un piccolo spazio chiamato Plan de Musnatta. Una volta i dintorni erano malfamati e si raccontava di luci e strani mostri che vi si incontravano. Il più temuto era il Selvaggio di Pontives: uomo di terribile aspetto che si aggirava seminudo per la Ròa e scagliava pietroni e tronchi sui passanti, sopratutto quelli vestiti di abiti vivaci, ma che un giorno sparì.
In una fattoria abitava un tempo una giovane ricca senza genitori, ma con una vecchia cugina che tutti credevano una strega e di cui si mormorava avesse avvelenato il marito. Crescendo senza genitori la giovane era divenuta capricciosa e bizzarra. un Martedì Grasso in cui il vino scorreva a ruscelli in una festa a casa loro la ragazza pensò una scommessa stravagante: entro 7 mesi la cugina avrebbe trovato l'uomo piu brutto e grosso della contrada e lei lo avrebbe sposato. La cugina disse che a suo parere egli era un fabbro di una valle lontana: Vestito di pelle di bue e con una camicia di fibre di betulla, una barba incolta, non aveva mai visto una casa, era rozzo peggio di un orso forte da sradicare alberi. La cugina riuscì a combinare davvero il matrimonio. La giovane rideva forte e ciò è sempre cattivo segno, ma il fabbro che non conosceva gli usi dei contadini non ci fece caso.
Anche dopo il matrimonio si burlavano di lui e lo trattavano con disprezzo ma lui non si ribellava. Un giorno per deriderlo gli portarono abiti colorati dicendo di metterli per la sera perchè ci sarebbe stata festa in casa ma, per la prima volta con sorpresa di lei, rifiutò. Tentò di spiegarle che per gli esseri selvatici come lui la più intima parte dell'animo era legata al modo di vestire e se avesse cambiato vestiti avrebbe rinunciato a una parte di sè. Forse avrebbe convinto la moglie, se la cugina non avesse gridato -Non farla lunga! gettagli gli abiti nel fuoco, cosi li metterà!- entrambi si slanciarono sugli abiti e lei ebbe la meglio. l'uomo si lamentò cosi tristemente urlando -ah!se avessi i miei abiti!- cosi a lungo che la donna si spaventò. Da quel giorno indossò solo i calzoni di cuoio e mutò d'animo, passando le giornate vagando nel bosco senza fare niente e dormendo nel fienile senza più farsi vedere in casa. Un garzone maligno lo stuzzicava dicendo che per diritto avrebbe potuto uccider la moglie e lui al suo posto l'avrebbe fatto. In tutta risposta il selvatico preso da ira sradicò un albero e con un colpo in testa lo uccise, poi fuggì. Da allora a Roa de Puntives parlavano del pericoloso selvaggio. Un giorno due bimbi cercavano lamponi e videro l'uomo su un sasso che si lamentava. Gli avevano detto che mangiava i bambini, ma a loro non pareva cattivo. Ogni giorno i bimbi passavano di lì e lo sentivano lamentarsi, vedendolo solo con le braghe e punto dai tafani, così decisero di fargli loro un abito. il bimbo trovò una pelle e la ragazzina cucì. la camicia era grande non più di un palmo ma i bimbi non ci facevano caso. Come lo sentirono lamentarsi dei vestiti si fecero coraggio e gli porsero quelli fatti da loro. L'uomo era stupito ma felice -grazie, ho di nuovo un vestito, mi avete liberato! non possiedo niente ma vi lascio questo luogo. quando direte "Musnatta" troverete sempre lamponi in quantità!- detto questo scomparve tra le rocce della Rasciesa. I ragazzi non dimenticarono, passarono gli anni e la bimba diventò una vecchietta curva e raggrinzita che andava di villaggio in villaggio a vender lamponi, mentre la gente si domandava come facesse quella povera donnina a trovar squisiti lamponi anche nei più freddi mesi invernali.
In una fattoria abitava un tempo una giovane ricca senza genitori, ma con una vecchia cugina che tutti credevano una strega e di cui si mormorava avesse avvelenato il marito. Crescendo senza genitori la giovane era divenuta capricciosa e bizzarra. un Martedì Grasso in cui il vino scorreva a ruscelli in una festa a casa loro la ragazza pensò una scommessa stravagante: entro 7 mesi la cugina avrebbe trovato l'uomo piu brutto e grosso della contrada e lei lo avrebbe sposato. La cugina disse che a suo parere egli era un fabbro di una valle lontana: Vestito di pelle di bue e con una camicia di fibre di betulla, una barba incolta, non aveva mai visto una casa, era rozzo peggio di un orso forte da sradicare alberi. La cugina riuscì a combinare davvero il matrimonio. La giovane rideva forte e ciò è sempre cattivo segno, ma il fabbro che non conosceva gli usi dei contadini non ci fece caso.
Anche dopo il matrimonio si burlavano di lui e lo trattavano con disprezzo ma lui non si ribellava. Un giorno per deriderlo gli portarono abiti colorati dicendo di metterli per la sera perchè ci sarebbe stata festa in casa ma, per la prima volta con sorpresa di lei, rifiutò. Tentò di spiegarle che per gli esseri selvatici come lui la più intima parte dell'animo era legata al modo di vestire e se avesse cambiato vestiti avrebbe rinunciato a una parte di sè. Forse avrebbe convinto la moglie, se la cugina non avesse gridato -Non farla lunga! gettagli gli abiti nel fuoco, cosi li metterà!- entrambi si slanciarono sugli abiti e lei ebbe la meglio. l'uomo si lamentò cosi tristemente urlando -ah!se avessi i miei abiti!- cosi a lungo che la donna si spaventò. Da quel giorno indossò solo i calzoni di cuoio e mutò d'animo, passando le giornate vagando nel bosco senza fare niente e dormendo nel fienile senza più farsi vedere in casa. Un garzone maligno lo stuzzicava dicendo che per diritto avrebbe potuto uccider la moglie e lui al suo posto l'avrebbe fatto. In tutta risposta il selvatico preso da ira sradicò un albero e con un colpo in testa lo uccise, poi fuggì. Da allora a Roa de Puntives parlavano del pericoloso selvaggio. Un giorno due bimbi cercavano lamponi e videro l'uomo su un sasso che si lamentava. Gli avevano detto che mangiava i bambini, ma a loro non pareva cattivo. Ogni giorno i bimbi passavano di lì e lo sentivano lamentarsi, vedendolo solo con le braghe e punto dai tafani, così decisero di fargli loro un abito. il bimbo trovò una pelle e la ragazzina cucì. la camicia era grande non più di un palmo ma i bimbi non ci facevano caso. Come lo sentirono lamentarsi dei vestiti si fecero coraggio e gli porsero quelli fatti da loro. L'uomo era stupito ma felice -grazie, ho di nuovo un vestito, mi avete liberato! non possiedo niente ma vi lascio questo luogo. quando direte "Musnatta" troverete sempre lamponi in quantità!- detto questo scomparve tra le rocce della Rasciesa. I ragazzi non dimenticarono, passarono gli anni e la bimba diventò una vecchietta curva e raggrinzita che andava di villaggio in villaggio a vender lamponi, mentre la gente si domandava come facesse quella povera donnina a trovar squisiti lamponi anche nei più freddi mesi invernali.
- Leggende delle dolomiti 16 - La regina dei Cròderes
Andando da Cortina d'Ampezzo al lago di Misurina, passando per il giogo delle Tre Croci, si ha davanti una catena di montagne severe, dalle vette rigonfie di neve e ghiaccio, che hanno nome Marmaròle. Ai piedi della catena, tra Auronzo e Misurina, c'è l Argentiera, una miniera un tempo ricchissima e oggi impoverita. I minatori raccontavano che sulle cime abitavano i Crodères, i figli delle rocce. Essi erano uguali agli uomini, ma non provavano alcuna gioia ne dolore, erano indifferenti a tutto perchè il loro cuore era di pietra. Su loro regnava una donna, Tanna, vestita di abito scuro e con un diadema azzurro in testa, su un trono in una sala semibuia di un palazzo di ghiaccio, tra due casse lavorate in oro. L'avevano vista perchè un giorno all'anno nel regno c'e' un "giorno di calma". Un giorno in cui la montagna è come morta: non si muovono foglie, non rotolano sassi, i Crodères dormono e i loro rifugi sono aperti e i minatori ne approfittano per prendergli oro e argento.
Fin da piccola Tanna era stata incoronata col diadema, ma i Crodères se ne erano pentiti perchè aveva un cuore umano e ascoltava le richieste degli uomini usando il suo enorme potere per aiutarli. Proibì ai sassi di rotolare, ai torrenti di scorrere con irruenza, al posto di ripidi sentieri fece crescere dolci pascoli e vietò alla neve di cadere in valanghe. I Crodères erano indispettiti perchè il loro regno veniva invaso da uomini, ma il risultato era che Tanna si allontanava sempre più dal suo serio e freddo popolo. Sette anni erano passati quando il Vento delle Tempeste la vide e si innamorò. Venne a sapere dai Crodères della sua storia e pensò che non potesse continuare a stare tra gli uomini. Ogni giornò soffiò sui prati, sradicando case e alberi, finchè non la incontrò -Nobile regina, sei la signora delle montagne e io dei venti, uniamoci e la nostra potenza sarà immensa! Vieni nel mio regno di luce e il mondo si stenderà ai tuoi piedi!- Ma Tanna non solo rifiutò, ma lo pregò di non tornar troppo spesso perchè guastava le capanne! Il Vento non voleva credere che rifiutasse davvero e per altre due volte tornò, ma dovette andarsene senza sposa mentre gli uomini, che avevano capito l'accaduto, stavano alle finestre a burlarsi di lui.
Altri anni passarono finchè giunse ai Crodères la notizia: Tanna aveva concesso la sua mano al principe d'Aquileja, un uomo! Questa volta indissero assemblea dove intimarono a Tanna di mutare condotta, ma lei ricusò il giuramento. Fù chiamato allora per maledirla il più vecchio dei Crodères. Anch'egli aveva cuore umano, ma traboccante d'odio. Il popolo non aveva simpatia per lui, ma lo chiamavano in questi casi, perchè si sa che le maledizioni non sono efficaci se non escono da un cuore che odia. Il Vecchio arrivò sorretto da due guide e ascoltò le accuse, ma quando pose lo sguardo su Tanna il suo sguardo perse l'espressione cattiva. Tutti aspettavano che facesse i gesti per maledirla, senza dir parola come suo solito, ma egli parlò -Perchè riaprite le ferite dell'anima mia? ho dovuto vivere tanto tempo per vedere ancor una volta lo sguardo di colei che avea viso come aurora, capelli come luce del sole, occhi come cielo infinito?- Dallo sguardo stanco sembrava volesse raccontare una storia dolorosa di anni lontani, ma i Crodères insistevano per la maledizione -Esser regina dei Crodères...che le importa , ora? Deve deporre il diadema azzurro e vivere con gli uomini finchè il suo destino non sia compiuto. Poi tornerà tra le montagne e sarà la più degna tra le regine- detto questo il vecchio si appoggiò a una delle guide e si accorsero che era senza vita.
Tanna ebbe un bambino, Salvanèl, e con lui aspettava il ritorno dell'uomo che amava. Viveva sulle più alte vette per poter guardare fino al mare, in direzione di Aquileja, e con pazienza e fiducia infinita attendeva. Il figlio cresceva e le domandava del mondo, lei rispondeva che quando sarebbe tornato il padre gli avrebbe raccontato tutto, ma Salvanèl era stanco d'attendere e quando si fece grande partì. Ritrovò suo padre, ma egli non lo riconobbe, così il ragazzo offrì i suoi servigi al nemico. Quando vi fu battaglia il ragazzo venne gravemente ferito, tutti sapevano che era stato il padre a colpirlo ed ebbero pietà di lui. Marcòra, la figlia del duca, lo curò con amore e quando guarì chiese al padre di poterlo sposare, ma egli si adirò e la rinchiuse sulla torre. Salvanèl riuscì a liberarla e fuggì con lei verso le montagne abitate da Tanna.
La madre ogni giorno si sentiva più infelice e sola, ma non voleva pensare all'uomo che l'aveva tanto addolorata, ora sperava solo nel ritorno del figlio. Una sera le parve di sentire un lontano -mamma!- e subito guardò giù, era davvero suo figlio -Mamma! mostrami la strada che c'e' troppa neve e non riesco a trovarla! siamo inseguiti! salvaci!- Neppure lei conosceva la strada perchè erano troppi anni che non la percorreva, non era più regina e le montagne non la obbidivano più. Calava la notte, così ebbe qualche ora per correre dai Crodères a chiedere aiuto, sperando di poter far cadere delle valanghe sugli inseguitori. Li pregò in ginocchio, ma i loro cuori di pietra li lasciavano insensibili. Tornò l'alba e i nemici raggiunsero i due fuggiaschi: Salvanèl combattè con tutte le forze, fin quando non cadde in un crepaccio.
Tanna e Marcòra andarono ad abitare una povera capanna, sperando ogni giorno che il ghiacciaio riportasse il corpo di Salvanèl, ma il ghiacciaio continuava a crescere per l'ordine di non far cadere valanghe. I pascoli sparivano sotto i ghiacci e i pastori si persuasero che fosse colpa delle due "Strìes de la djassa" (streghe del ghiacciaio), così bruciarono la loro capanna. Le donne andarono a vivere in una caverna, ma i dispetti continuarono, anche se senza riuscire mai a cacciarle. Un giorno finalmente i pastori trovarono un corpo e urlarono di stupore. Marcòra sentendo le urla capì e corse: riconoscendo il corpo di Salvanèl la sua vita non aveva più ragion d'essere e morì accanto a lui. Anche Tanna si avvicinò, ma tutti si scostarono con rispetto, perchè non avevano più davanti la miserabile Strìas, bensì una regina. Di nuovo portava in capo il più gran tesoro e mistero delle Marmaròle, il diadema azzurro. I più vecchi la riconobbero esclamando il suo nome. -Si, sono Tanna, la regina dei Crodères. Ora lo sono di nuovo e porto la corona azzurra perchè il destino si è compiuto. Fuggite, voi, perchè altrimenti vi aspetta la morte. Tanna ritorna al suo popolo: le forze della montagna vengono rimesse in libertà. I divieti che servivano a proteggervi sono revocati e sotto le valanghe voglio seppellire il mio amore e il mio dolore- Come finì di parlare si sentì un rumore sordo dalle più alte vette e uomini e greggi scapparono veloci. I ghiacciai si spaccarono e le valanghe iniziarono a cadere, mentre il popolo dei Crodères uscì a render omaggio alla regina ritrovata. I corpi di Marcòra e Salvanèl furono messi in due casse di oro e portati con solenne corteo nel palazzo del Cordòn de Fropa, il palazzo di ghiaccio.
Tanna è ancora col suo popolo. Solo per aver seguito un'ultima volta l'impulso del suo cuore e aver avvisato i pastori del pericolo che li minacciava, ogni anno ha ancora un giorno di dolore e questo è il "giorno di calma". Quel giorno piange il suo amor tradito e la felicità perduta ma, alla fine del giorno, torna la superba regina delle montagne, la sovrana assoluta del suo regno selvaggio, bella, gelida e maestora, insensibile al dolore e all'amore, come tutti i Crodères.
Fin da piccola Tanna era stata incoronata col diadema, ma i Crodères se ne erano pentiti perchè aveva un cuore umano e ascoltava le richieste degli uomini usando il suo enorme potere per aiutarli. Proibì ai sassi di rotolare, ai torrenti di scorrere con irruenza, al posto di ripidi sentieri fece crescere dolci pascoli e vietò alla neve di cadere in valanghe. I Crodères erano indispettiti perchè il loro regno veniva invaso da uomini, ma il risultato era che Tanna si allontanava sempre più dal suo serio e freddo popolo. Sette anni erano passati quando il Vento delle Tempeste la vide e si innamorò. Venne a sapere dai Crodères della sua storia e pensò che non potesse continuare a stare tra gli uomini. Ogni giornò soffiò sui prati, sradicando case e alberi, finchè non la incontrò -Nobile regina, sei la signora delle montagne e io dei venti, uniamoci e la nostra potenza sarà immensa! Vieni nel mio regno di luce e il mondo si stenderà ai tuoi piedi!- Ma Tanna non solo rifiutò, ma lo pregò di non tornar troppo spesso perchè guastava le capanne! Il Vento non voleva credere che rifiutasse davvero e per altre due volte tornò, ma dovette andarsene senza sposa mentre gli uomini, che avevano capito l'accaduto, stavano alle finestre a burlarsi di lui.
Altri anni passarono finchè giunse ai Crodères la notizia: Tanna aveva concesso la sua mano al principe d'Aquileja, un uomo! Questa volta indissero assemblea dove intimarono a Tanna di mutare condotta, ma lei ricusò il giuramento. Fù chiamato allora per maledirla il più vecchio dei Crodères. Anch'egli aveva cuore umano, ma traboccante d'odio. Il popolo non aveva simpatia per lui, ma lo chiamavano in questi casi, perchè si sa che le maledizioni non sono efficaci se non escono da un cuore che odia. Il Vecchio arrivò sorretto da due guide e ascoltò le accuse, ma quando pose lo sguardo su Tanna il suo sguardo perse l'espressione cattiva. Tutti aspettavano che facesse i gesti per maledirla, senza dir parola come suo solito, ma egli parlò -Perchè riaprite le ferite dell'anima mia? ho dovuto vivere tanto tempo per vedere ancor una volta lo sguardo di colei che avea viso come aurora, capelli come luce del sole, occhi come cielo infinito?- Dallo sguardo stanco sembrava volesse raccontare una storia dolorosa di anni lontani, ma i Crodères insistevano per la maledizione -Esser regina dei Crodères...che le importa , ora? Deve deporre il diadema azzurro e vivere con gli uomini finchè il suo destino non sia compiuto. Poi tornerà tra le montagne e sarà la più degna tra le regine- detto questo il vecchio si appoggiò a una delle guide e si accorsero che era senza vita.
Tanna ebbe un bambino, Salvanèl, e con lui aspettava il ritorno dell'uomo che amava. Viveva sulle più alte vette per poter guardare fino al mare, in direzione di Aquileja, e con pazienza e fiducia infinita attendeva. Il figlio cresceva e le domandava del mondo, lei rispondeva che quando sarebbe tornato il padre gli avrebbe raccontato tutto, ma Salvanèl era stanco d'attendere e quando si fece grande partì. Ritrovò suo padre, ma egli non lo riconobbe, così il ragazzo offrì i suoi servigi al nemico. Quando vi fu battaglia il ragazzo venne gravemente ferito, tutti sapevano che era stato il padre a colpirlo ed ebbero pietà di lui. Marcòra, la figlia del duca, lo curò con amore e quando guarì chiese al padre di poterlo sposare, ma egli si adirò e la rinchiuse sulla torre. Salvanèl riuscì a liberarla e fuggì con lei verso le montagne abitate da Tanna.
La madre ogni giorno si sentiva più infelice e sola, ma non voleva pensare all'uomo che l'aveva tanto addolorata, ora sperava solo nel ritorno del figlio. Una sera le parve di sentire un lontano -mamma!- e subito guardò giù, era davvero suo figlio -Mamma! mostrami la strada che c'e' troppa neve e non riesco a trovarla! siamo inseguiti! salvaci!- Neppure lei conosceva la strada perchè erano troppi anni che non la percorreva, non era più regina e le montagne non la obbidivano più. Calava la notte, così ebbe qualche ora per correre dai Crodères a chiedere aiuto, sperando di poter far cadere delle valanghe sugli inseguitori. Li pregò in ginocchio, ma i loro cuori di pietra li lasciavano insensibili. Tornò l'alba e i nemici raggiunsero i due fuggiaschi: Salvanèl combattè con tutte le forze, fin quando non cadde in un crepaccio.
Tanna e Marcòra andarono ad abitare una povera capanna, sperando ogni giorno che il ghiacciaio riportasse il corpo di Salvanèl, ma il ghiacciaio continuava a crescere per l'ordine di non far cadere valanghe. I pascoli sparivano sotto i ghiacci e i pastori si persuasero che fosse colpa delle due "Strìes de la djassa" (streghe del ghiacciaio), così bruciarono la loro capanna. Le donne andarono a vivere in una caverna, ma i dispetti continuarono, anche se senza riuscire mai a cacciarle. Un giorno finalmente i pastori trovarono un corpo e urlarono di stupore. Marcòra sentendo le urla capì e corse: riconoscendo il corpo di Salvanèl la sua vita non aveva più ragion d'essere e morì accanto a lui. Anche Tanna si avvicinò, ma tutti si scostarono con rispetto, perchè non avevano più davanti la miserabile Strìas, bensì una regina. Di nuovo portava in capo il più gran tesoro e mistero delle Marmaròle, il diadema azzurro. I più vecchi la riconobbero esclamando il suo nome. -Si, sono Tanna, la regina dei Crodères. Ora lo sono di nuovo e porto la corona azzurra perchè il destino si è compiuto. Fuggite, voi, perchè altrimenti vi aspetta la morte. Tanna ritorna al suo popolo: le forze della montagna vengono rimesse in libertà. I divieti che servivano a proteggervi sono revocati e sotto le valanghe voglio seppellire il mio amore e il mio dolore- Come finì di parlare si sentì un rumore sordo dalle più alte vette e uomini e greggi scapparono veloci. I ghiacciai si spaccarono e le valanghe iniziarono a cadere, mentre il popolo dei Crodères uscì a render omaggio alla regina ritrovata. I corpi di Marcòra e Salvanèl furono messi in due casse di oro e portati con solenne corteo nel palazzo del Cordòn de Fropa, il palazzo di ghiaccio.
Tanna è ancora col suo popolo. Solo per aver seguito un'ultima volta l'impulso del suo cuore e aver avvisato i pastori del pericolo che li minacciava, ogni anno ha ancora un giorno di dolore e questo è il "giorno di calma". Quel giorno piange il suo amor tradito e la felicità perduta ma, alla fine del giorno, torna la superba regina delle montagne, la sovrana assoluta del suo regno selvaggio, bella, gelida e maestora, insensibile al dolore e all'amore, come tutti i Crodères.
- Leggende delle dolomiti 15 - La tambra de selièttes
C'era una volta un pastore ch ogni anno saliva in Val Travegnòl. Per raggiungerla doveva passare il ponte della Sgorbiàccia, un ponte su un profondo ghiacciaio evitato da tutti, perchè si diceva accadessero cose strane.
Il contadino veniva soprannominato Ciompo (zoppo in ladino), perchè zoppicava. Egli non era mai stato di buona compagnia e passava mesi in solitudine sui monti. Si era costruito una piccola tambra (capanna) e dopo sette anni che andava in quei luoghi, vide una fanciulla che raccoglieva selièttes (miosotidi o "non ti scordar di me") nei dintorni. Si conobbero e presto si fidanzarono. Lei si chiamava Jendsàna e portava sempre al petto un mazzolino di selièttes; stavano tutto il giorno assieme ma, ogni sera, lei spariva nel bosco. Un giorno venne col braccio bendato e subito Ciompo le chiese cosa fosse successo, ma ella risposte -la mia vita ti appartiene e il mio cuore ti è dato. Sei sicuro del mio amore come io sono del tuo, ma ci sono 3 cose che non devi domandarmi: di dove vengo, cos'ho fatto al braccio e dove vado-
Il pastore si rese conto di conoscer poco di lei e pensò fosse una delle Anguane, creature misteriose che si sposavano qualche volta con gli uomini, ma dopo certo tempo sparivano. Si spaventò al pensiero di non rivederla e le confessò il suo dubbio, ma lei lo rassicurò di no, pregandolo di non chiedergli altro, ma egli continuava a tormentarsi e tormentarla, finchè non la persuase.
Anni prima una donna aveva gettato dal ponte Sgorbiàccia una bimba ed era fuggita. Una lontra la prese per far mangiare i piccoli, ma questi la trovarono così buffa che vollero tenerla per giocare. Quando arrivò il padre li rimproverò -dove avete trovato questo mostro? non sapete che è di una razza prepotente e malvagia, che vuol dominare tutti? se non la uccidete ci manderà in rovina!- ma i piccoli tanto pregarono che la tennero con sè. Crebbe selvaggia e imparò a nuotare e vivere come una lontra finchè, un giorno, salendo sulla terra non vide per la prima volta un prato fiorito di miosotidi e trovò che nel torrente nulla fosse tanto bello. Ogni giorno tornò a raccoglierne, imparando a viver come gli uomini. Una sera,tornando alla famiglia adottiva, raccontò di essersi fidanzata con un uomo e si irritarono tanto che il figlio maggiore la morse al braccio.
Il pastore fu impressionato dallo strano racconto e volle accompagnarla al fiume. Lei balzò in acqua ma da quel giorno non tornò. Venne l'autunno e Ciompo dovette portar le pecore a valle, ma non riusciva a restare in paese, così tornò su il giorno stesso e si addormentò sotto un pino. A sera lo svegliò un vecchio -alzati che l'aria è fredda, il sole è tramontato e il Cimòn è in enrosadira (il rosa di cui si tingono le Dolomiti a sera). L'è na voeya del destin (una sera del destino). A quest'ora le Comèlles salgono dalle grotte sul campo ghiacciato della Fradusta e scherzano con la ragione degli uomini. Chi oggi ragiona domani potrebbe aver perduto la mente e il suo spirito sarà nella notte!-
I due si lasciarono e Ciompo scese fino al Travegnòl e ancora ripensò a Jendsàna, tanto che la vita non gli pareva più possibile e iniziò a camminare tormentandosi su e giù per il torrente. D'improvviso sentì una voce -ma sei pazzo o lo stai diventando?- gli parve che tutto girasse e credette di udire voci uscir dall'acqua e vederne emergere strane figure. Le Comèlles erano scese dai ghiacciai e gli avevan portato via la ragione!
In paese iniziarono a domandarsi che ne fosse di Ciompo e decisero di andar a vedere. La valle era coperta della neve dell'inverno, tranne attorno alla sua tambra, dove tutto era verde e fiorito di selièttes. Egli era steso immobile con dei fiori freschi tra le mani. Sembrava dormisse ma ai richiami e alle scosse non si mosse. Raccontando la cosa a villaggio altri andarono perchè non ci credevano. Quando anch'essi videro immaginarono fosse una stregoneria e si nascosero per veder che accadesse. Al mattino videro arrivar una fanciulla e sostituire i fiori con alcuni freschi, sospirando disse tra sè -or devo aspettar altri sette anni prima di riaverti..- quando si allontanò gli uomini videro che come toccava la neve si tramutava in lontra e si tuffava in fiume.
Tutti a paese pensarono fosse stregato da una incantatrice e altri vollero vedere. Si nascosero e la donna tornò. Quando vide il pastore, non si sa per che motivo, disse dispiaciuta -or devo aspettare tredici anni per riaverti...- si guardò poi attorno -mi pare che qualcuno ci veda..- i giovani a queste parole fuggirono spaventati di chissà che vendetta della strega. Solo a primavera qualche curioso ebbe coraggio di andar lassù e la capanna non era sparita, ma vi era un grande prato di selièttes. Chiesero a un vecchio che aveva una certa fama di stregoneria che abitava al Plan del Veje (Piano del vecchio)ed egli disse che era colpa delle lontre, che erano bestie cattive che attiravano le altre creature in acqua e le facevano sparire e la lontra-strega aveva ammaliato Ciompo e portato nel suo regno d'acqua. Bisognava distruggerle tutte!
Il discorso impressionò i giovani e si organizzò la terribile caccia che le sterminò.
Così si avverò il presagio della vecchia lontra: la piccola umana alla quale avevan donato la vita sarebbe stata rovina della loro razza.
Il contadino veniva soprannominato Ciompo (zoppo in ladino), perchè zoppicava. Egli non era mai stato di buona compagnia e passava mesi in solitudine sui monti. Si era costruito una piccola tambra (capanna) e dopo sette anni che andava in quei luoghi, vide una fanciulla che raccoglieva selièttes (miosotidi o "non ti scordar di me") nei dintorni. Si conobbero e presto si fidanzarono. Lei si chiamava Jendsàna e portava sempre al petto un mazzolino di selièttes; stavano tutto il giorno assieme ma, ogni sera, lei spariva nel bosco. Un giorno venne col braccio bendato e subito Ciompo le chiese cosa fosse successo, ma ella risposte -la mia vita ti appartiene e il mio cuore ti è dato. Sei sicuro del mio amore come io sono del tuo, ma ci sono 3 cose che non devi domandarmi: di dove vengo, cos'ho fatto al braccio e dove vado-
Il pastore si rese conto di conoscer poco di lei e pensò fosse una delle Anguane, creature misteriose che si sposavano qualche volta con gli uomini, ma dopo certo tempo sparivano. Si spaventò al pensiero di non rivederla e le confessò il suo dubbio, ma lei lo rassicurò di no, pregandolo di non chiedergli altro, ma egli continuava a tormentarsi e tormentarla, finchè non la persuase.
Anni prima una donna aveva gettato dal ponte Sgorbiàccia una bimba ed era fuggita. Una lontra la prese per far mangiare i piccoli, ma questi la trovarono così buffa che vollero tenerla per giocare. Quando arrivò il padre li rimproverò -dove avete trovato questo mostro? non sapete che è di una razza prepotente e malvagia, che vuol dominare tutti? se non la uccidete ci manderà in rovina!- ma i piccoli tanto pregarono che la tennero con sè. Crebbe selvaggia e imparò a nuotare e vivere come una lontra finchè, un giorno, salendo sulla terra non vide per la prima volta un prato fiorito di miosotidi e trovò che nel torrente nulla fosse tanto bello. Ogni giorno tornò a raccoglierne, imparando a viver come gli uomini. Una sera,tornando alla famiglia adottiva, raccontò di essersi fidanzata con un uomo e si irritarono tanto che il figlio maggiore la morse al braccio.
Il pastore fu impressionato dallo strano racconto e volle accompagnarla al fiume. Lei balzò in acqua ma da quel giorno non tornò. Venne l'autunno e Ciompo dovette portar le pecore a valle, ma non riusciva a restare in paese, così tornò su il giorno stesso e si addormentò sotto un pino. A sera lo svegliò un vecchio -alzati che l'aria è fredda, il sole è tramontato e il Cimòn è in enrosadira (il rosa di cui si tingono le Dolomiti a sera). L'è na voeya del destin (una sera del destino). A quest'ora le Comèlles salgono dalle grotte sul campo ghiacciato della Fradusta e scherzano con la ragione degli uomini. Chi oggi ragiona domani potrebbe aver perduto la mente e il suo spirito sarà nella notte!-
I due si lasciarono e Ciompo scese fino al Travegnòl e ancora ripensò a Jendsàna, tanto che la vita non gli pareva più possibile e iniziò a camminare tormentandosi su e giù per il torrente. D'improvviso sentì una voce -ma sei pazzo o lo stai diventando?- gli parve che tutto girasse e credette di udire voci uscir dall'acqua e vederne emergere strane figure. Le Comèlles erano scese dai ghiacciai e gli avevan portato via la ragione!
In paese iniziarono a domandarsi che ne fosse di Ciompo e decisero di andar a vedere. La valle era coperta della neve dell'inverno, tranne attorno alla sua tambra, dove tutto era verde e fiorito di selièttes. Egli era steso immobile con dei fiori freschi tra le mani. Sembrava dormisse ma ai richiami e alle scosse non si mosse. Raccontando la cosa a villaggio altri andarono perchè non ci credevano. Quando anch'essi videro immaginarono fosse una stregoneria e si nascosero per veder che accadesse. Al mattino videro arrivar una fanciulla e sostituire i fiori con alcuni freschi, sospirando disse tra sè -or devo aspettar altri sette anni prima di riaverti..- quando si allontanò gli uomini videro che come toccava la neve si tramutava in lontra e si tuffava in fiume.
Tutti a paese pensarono fosse stregato da una incantatrice e altri vollero vedere. Si nascosero e la donna tornò. Quando vide il pastore, non si sa per che motivo, disse dispiaciuta -or devo aspettare tredici anni per riaverti...- si guardò poi attorno -mi pare che qualcuno ci veda..- i giovani a queste parole fuggirono spaventati di chissà che vendetta della strega. Solo a primavera qualche curioso ebbe coraggio di andar lassù e la capanna non era sparita, ma vi era un grande prato di selièttes. Chiesero a un vecchio che aveva una certa fama di stregoneria che abitava al Plan del Veje (Piano del vecchio)ed egli disse che era colpa delle lontre, che erano bestie cattive che attiravano le altre creature in acqua e le facevano sparire e la lontra-strega aveva ammaliato Ciompo e portato nel suo regno d'acqua. Bisognava distruggerle tutte!
Il discorso impressionò i giovani e si organizzò la terribile caccia che le sterminò.
Così si avverò il presagio della vecchia lontra: la piccola umana alla quale avevan donato la vita sarebbe stata rovina della loro razza.
- Leggende delle dolomiti 14 - Cadina
Il confine tra Val di Fiemme e val di Fassa è formato da una catena di montagne dentate e ripidi pendii, che vien detta Cadena de Costa bella. Or sull'alto di una rupe, or in una caverna, si può scorgere una donna belissima dalle vesti bianche e con una collana rosso sangue al collo, che guarda lontano con sguardo triste e stanco.
Un tempo questi monti erano popolati e gli abitanti si dividevano in numerosi gruppi di famiglie, ciascuno dei quali sottoposto all'autorità di un capo. Uno dei più ricchi e superbi aveva una figlia di nome Cadina fidanzata con Verrènes, un guerriero della sua tribù. Poco prima del giorno della nozze giunsero i Trusani dal veneto e si arrivò alla guerra. Tra i giovani che partirono c'era anche Verrènes che, prendendo congedo dalla fidanzata, le regalò una collana color cenere che gli aveva dato tempo prima un nano del Latemar. Le fece promettere di non toglierla finchè non fosse tornato o finchè non fosse giunta notizia della sua morte. In una terribile battaglia i Trusani furono ricacciati, ma Verrènes, ferito, era stato preso prigioniero. Cadina si sentiva umiliata di esser fidanzata di un prigioniero, mentre il padre di lei aveva acquistato importanza e veniva considerato un re. Quando venne un principe straniero e iniziò a farle la corte, il pensiero del fidanzato lontano sbiadì sempre più. Passò un intero anno senza notizie, così finì per fidanzarsi col pretendente. Nel frattempo Verrènes era guarito ed era riuscito a fuggire e tornare in patria, chiedendo di parlare con Cadina. Alla notizia lei si turbò tanto che non volle vederlo e gli fece sapere di esser promessa ad altri. Addolorato egli lasciò la patria e si fece cacciatore sull'alta Val di Fassa.
Cadina pensò che, ora che aveva rotto definitivamente, doveva rimandargli la collana, perchè sapeva esser oggetto prodigioso e di valore... ma quando volle toglierla si accorse con spavento che non poteva: provarono con ogni mezzo, ma si dovette rassegnare a portarla tutta la vita. Questo prodigio la impressionò tanto che iniziò a sentire rimorsi per la sua condotta, ma il giorno delle nozze ormai si avvicinava. Un giorno passeggiando vide un guerrier fassano che teneva uno scudo con tracciato un anello rosso. Gli chiese cosa volesse ed egli così rispose -un drappello trusano si avvicinò ai nostri confini e i Fassani si radunarono e combatterono una dura battaglia. Fra essi c'era il tuo antico fidanzato. Egli è stato ferito e, prima di morire, ha tracciato un anello su questo scudo, pregandomi di portartelo-
Il fassano le porse lo scudo e si allontanò. Cadina cadde svenuta e, quando si riprese, co meraviglia constatò che la collana era divenuta rossa e brillava d'una luce inquietante.
Giunse il principe che disse di non aver mai visto gioiello del genere, che solo i nani sapevano farne di simili. A queste parole Cadina impallidì tanto che il principe insospettito chiese spiegazioni. Le chiese di toglierla e vide che non vi riusciva, così capì che Cadina doveva esser sotto il peso di una maledizione o un'incantesimo, non ne volle più sentire di parlar di nozze e ripartì.
Cadina cadde in una profonda malinconia dal quale non si sollevò mai più. Ancora oggi è lassù che guarda in silenzio verso la Marmolada dove, sul passo Fedaja, è morto da eroe l'infelice Verrènes.
Un tempo questi monti erano popolati e gli abitanti si dividevano in numerosi gruppi di famiglie, ciascuno dei quali sottoposto all'autorità di un capo. Uno dei più ricchi e superbi aveva una figlia di nome Cadina fidanzata con Verrènes, un guerriero della sua tribù. Poco prima del giorno della nozze giunsero i Trusani dal veneto e si arrivò alla guerra. Tra i giovani che partirono c'era anche Verrènes che, prendendo congedo dalla fidanzata, le regalò una collana color cenere che gli aveva dato tempo prima un nano del Latemar. Le fece promettere di non toglierla finchè non fosse tornato o finchè non fosse giunta notizia della sua morte. In una terribile battaglia i Trusani furono ricacciati, ma Verrènes, ferito, era stato preso prigioniero. Cadina si sentiva umiliata di esser fidanzata di un prigioniero, mentre il padre di lei aveva acquistato importanza e veniva considerato un re. Quando venne un principe straniero e iniziò a farle la corte, il pensiero del fidanzato lontano sbiadì sempre più. Passò un intero anno senza notizie, così finì per fidanzarsi col pretendente. Nel frattempo Verrènes era guarito ed era riuscito a fuggire e tornare in patria, chiedendo di parlare con Cadina. Alla notizia lei si turbò tanto che non volle vederlo e gli fece sapere di esser promessa ad altri. Addolorato egli lasciò la patria e si fece cacciatore sull'alta Val di Fassa.
Cadina pensò che, ora che aveva rotto definitivamente, doveva rimandargli la collana, perchè sapeva esser oggetto prodigioso e di valore... ma quando volle toglierla si accorse con spavento che non poteva: provarono con ogni mezzo, ma si dovette rassegnare a portarla tutta la vita. Questo prodigio la impressionò tanto che iniziò a sentire rimorsi per la sua condotta, ma il giorno delle nozze ormai si avvicinava. Un giorno passeggiando vide un guerrier fassano che teneva uno scudo con tracciato un anello rosso. Gli chiese cosa volesse ed egli così rispose -un drappello trusano si avvicinò ai nostri confini e i Fassani si radunarono e combatterono una dura battaglia. Fra essi c'era il tuo antico fidanzato. Egli è stato ferito e, prima di morire, ha tracciato un anello su questo scudo, pregandomi di portartelo-
Il fassano le porse lo scudo e si allontanò. Cadina cadde svenuta e, quando si riprese, co meraviglia constatò che la collana era divenuta rossa e brillava d'una luce inquietante.
Giunse il principe che disse di non aver mai visto gioiello del genere, che solo i nani sapevano farne di simili. A queste parole Cadina impallidì tanto che il principe insospettito chiese spiegazioni. Le chiese di toglierla e vide che non vi riusciva, così capì che Cadina doveva esser sotto il peso di una maledizione o un'incantesimo, non ne volle più sentire di parlar di nozze e ripartì.
Cadina cadde in una profonda malinconia dal quale non si sollevò mai più. Ancora oggi è lassù che guarda in silenzio verso la Marmolada dove, sul passo Fedaja, è morto da eroe l'infelice Verrènes.
- Leggende delle dolomiti 13 - La Lajadira
Leggenda antichissima delle Dolomiti e delle valli dei Grigioni parla della Lajadira. Era una plaga felice intorno a un bellissimo lago ai piedi delle Alpi, situato verso mezzogiorno, con a nord le “Sette montagne di Vetro”, le cui sponde erano piene fiori. Non è difficile indovinare che il lago era il Garda e le montagne di vetro i ghiacciai che lo coronano. La figlia del re della Lajadira, all’insaputa del padre, era fidanzata con un trovatore. I due andavano in barca per il lago e passavano ore felici mentre lui le cantava con l’arpa
“Dorme il lago, queta è l’onda,
vieni, o mia fanciulla bionda;
è già pronta la barchetta,
vieni al lido, ove t’aspetta;
queta è l’onda:
vieni, o mia fanciulla bionda”
Arrivò un re forestiero a chieder la mano della principessa e, nonostante i rifiuti, i parenti la costrinsero ad acconsentire. Finite le feste partirono per andare nel paese del forestiero. Passando vicino al lago la giovane sentì la canzone e le si strinse il cuore, ma nulla poteva più fare. Una sera giunse un vecchio trovatore e il re gli chiese notizia di altri. Egli raccontò di un giovane della Lajadira che cantava un’unica canzone, ma destava così vasto entusiasmo che le dame si toglievano i gioielli di dosso per gettarli a lui. Cantò la canzone dell’amico ed era la canzone che lei tante volte aveva ascoltato. La regina pianse e nulla riusciva a calmarla. I medici la visitarono e dissero che aveva una grave malattia, chiamata “la gran passione”, che aveva 3 gradi. I primi guaribili, ma il terzo senza rimedio. Poteva guarire solo se non avesse avuto nuove agitazioni e si fosse fatto ciò che desiderava.
La regina chiese di rivedere la Lajadira, ma le sue condizioni non lo permettevano, così fecero venire un pittore che dipinse un grande quadro del luogo. Intanto il vecchio trovatore aveva incontrato l’amico e gli raccontò della malattia della regina. Il giovane andò con l’arpa sotto le sue finestre e cantò per lei. La mattina seguente i medici constatarono che era entrata nel secondo grado di malattia. Quando riprese un po’ di forze disse che non sopportava vivere in un paese così piano, freddo e nuvoloso e voleva tornare alla Lajadira. Il re la rimproverò di averla sempre circondata di cure e se ne andò offeso. Passò il tempo e una notte d’estate il trovatore tornò a cantare quella canzone. Poche ore dopo i medici constatarono ch’ella era entrata nel terzo grado di malattia. Era inquieta e agitata e i suoi occhi grandi, ardenti di febbre, erano sempre fissi sul quadro. Cercarono il vecchio trovatore e lo fecero stabilire a castello, doveva cantare sempre la canzone dell’amico che pareva darle un po’ di sollievo. Un giorno la regina domandò notizie e il vecchio le raccontò che il poveretto aveva rinunciato all’arte e, fattosi soldato, era morto in battaglia in un paese lontano. Da quel giorno la salute andò peggiorando. Una sera, sembratole di sentirsi meglio, pregò tutti di lasciarla sola a riposare. Il mattino dopo la trovarono morta: la grande passione aveva soffocato il suo cuore, stanco d’aver tanto sofferto.
Suonarono le campane a lutto e si celebrarono riti solenni, ma non v’era un cuore che la piangesse, perché il solo che l’avesse amata era caduto in battaglia in terra straniera.
La leggenda non finisce qui. Racconta che, dopo la morte della regina, la Lajadira non ha più fiori ma dirupi, ghiaia e neve; non si trova più nel mezzogiorno assolato ma è stata trasportata nelle fosche montagne dei Grigioni, al di là del Cevedale e del Bernina, vicino allo Stelvio, nel più solitario e triste ambiente alpino, presso un lago ignorato, il “Lago del deserto”, chiamato “Lay da Rims”. Tra quei dirupi nessuno mette piede e nelle acque del lago vivono ancora, protette dalla fata Artelusa, le anime del trovatore morto e della regina innamorata.
“Dorme il lago, queta è l’onda,
vieni, o mia fanciulla bionda;
è già pronta la barchetta,
vieni al lido, ove t’aspetta;
queta è l’onda:
vieni, o mia fanciulla bionda”
Arrivò un re forestiero a chieder la mano della principessa e, nonostante i rifiuti, i parenti la costrinsero ad acconsentire. Finite le feste partirono per andare nel paese del forestiero. Passando vicino al lago la giovane sentì la canzone e le si strinse il cuore, ma nulla poteva più fare. Una sera giunse un vecchio trovatore e il re gli chiese notizia di altri. Egli raccontò di un giovane della Lajadira che cantava un’unica canzone, ma destava così vasto entusiasmo che le dame si toglievano i gioielli di dosso per gettarli a lui. Cantò la canzone dell’amico ed era la canzone che lei tante volte aveva ascoltato. La regina pianse e nulla riusciva a calmarla. I medici la visitarono e dissero che aveva una grave malattia, chiamata “la gran passione”, che aveva 3 gradi. I primi guaribili, ma il terzo senza rimedio. Poteva guarire solo se non avesse avuto nuove agitazioni e si fosse fatto ciò che desiderava.
La regina chiese di rivedere la Lajadira, ma le sue condizioni non lo permettevano, così fecero venire un pittore che dipinse un grande quadro del luogo. Intanto il vecchio trovatore aveva incontrato l’amico e gli raccontò della malattia della regina. Il giovane andò con l’arpa sotto le sue finestre e cantò per lei. La mattina seguente i medici constatarono che era entrata nel secondo grado di malattia. Quando riprese un po’ di forze disse che non sopportava vivere in un paese così piano, freddo e nuvoloso e voleva tornare alla Lajadira. Il re la rimproverò di averla sempre circondata di cure e se ne andò offeso. Passò il tempo e una notte d’estate il trovatore tornò a cantare quella canzone. Poche ore dopo i medici constatarono ch’ella era entrata nel terzo grado di malattia. Era inquieta e agitata e i suoi occhi grandi, ardenti di febbre, erano sempre fissi sul quadro. Cercarono il vecchio trovatore e lo fecero stabilire a castello, doveva cantare sempre la canzone dell’amico che pareva darle un po’ di sollievo. Un giorno la regina domandò notizie e il vecchio le raccontò che il poveretto aveva rinunciato all’arte e, fattosi soldato, era morto in battaglia in un paese lontano. Da quel giorno la salute andò peggiorando. Una sera, sembratole di sentirsi meglio, pregò tutti di lasciarla sola a riposare. Il mattino dopo la trovarono morta: la grande passione aveva soffocato il suo cuore, stanco d’aver tanto sofferto.
Suonarono le campane a lutto e si celebrarono riti solenni, ma non v’era un cuore che la piangesse, perché il solo che l’avesse amata era caduto in battaglia in terra straniera.
La leggenda non finisce qui. Racconta che, dopo la morte della regina, la Lajadira non ha più fiori ma dirupi, ghiaia e neve; non si trova più nel mezzogiorno assolato ma è stata trasportata nelle fosche montagne dei Grigioni, al di là del Cevedale e del Bernina, vicino allo Stelvio, nel più solitario e triste ambiente alpino, presso un lago ignorato, il “Lago del deserto”, chiamato “Lay da Rims”. Tra quei dirupi nessuno mette piede e nelle acque del lago vivono ancora, protette dalla fata Artelusa, le anime del trovatore morto e della regina innamorata.
- Leggende delle dolomiti 12 - La Salvària
[questa breve leggenda ricorda quella di Man de Fier, ma val sempre la pena di esser raccontata]
Nei dintorni di Andràz viveva un contadino che abitava al limitar della foresta. Un giorno scorse una fanciulla che raccoglieva fragole per la mamma. Parlarono brevemente e gli raccontò che viveva nelle grotte tra le rocce, perchè erano Salvàrie (donne della selva) ed erano stati i antenati dei paesani a cacciarle sui monti. Da quel giorno si incontrarono spesso ed alla fine la giovane gli piacque tanto che decise di andar dal parroco a chieder se un matrimonio con una Salvària si potesse mai fare.
Poteva, ma solo se la donna fosse stata battezzata. Lei acconsentì, a condizione che non le chiedesse mai il suo nome. Per sette anni vissero felice nonostante i pettegolezzi della gente e lui, nonostante la curiosità, non le chiese mai il nome. Un giorno il contadino incontrò nel bosco un'altra fanciulla sconosciuta e le chiese se anche lei era una Salvària. -si- rispose la donna -come mai me lo domandi, ne conosci altre? - egli annuì -forse stai parlando di Lonca, quella che ha sposato uno di Andràz?
L'uomo felice di saper il nome della moglie corse da lei chiamandola per nome, ma la moglie si disperò, sapendo di dover lasciare marito e figli e dover tornare sui monti. Di tanto in tanto tornava la sera, per metter a letto i bambini, ma l'uomo si sedeva a tavola guardandola con tristezza. Ella lo pregò di andarsene ma lui non volle ubbidire, così lei seguitò a tornare invisibile al mondo. Solo i bimbi, prima d'addormentarsi, sentivano che gli rimboccava le coperte e li accarezzava, ma ciò durò solo fino la fine dell'anno e poi mai più.
Nei dintorni di Andràz viveva un contadino che abitava al limitar della foresta. Un giorno scorse una fanciulla che raccoglieva fragole per la mamma. Parlarono brevemente e gli raccontò che viveva nelle grotte tra le rocce, perchè erano Salvàrie (donne della selva) ed erano stati i antenati dei paesani a cacciarle sui monti. Da quel giorno si incontrarono spesso ed alla fine la giovane gli piacque tanto che decise di andar dal parroco a chieder se un matrimonio con una Salvària si potesse mai fare.
Poteva, ma solo se la donna fosse stata battezzata. Lei acconsentì, a condizione che non le chiedesse mai il suo nome. Per sette anni vissero felice nonostante i pettegolezzi della gente e lui, nonostante la curiosità, non le chiese mai il nome. Un giorno il contadino incontrò nel bosco un'altra fanciulla sconosciuta e le chiese se anche lei era una Salvària. -si- rispose la donna -come mai me lo domandi, ne conosci altre? - egli annuì -forse stai parlando di Lonca, quella che ha sposato uno di Andràz?
L'uomo felice di saper il nome della moglie corse da lei chiamandola per nome, ma la moglie si disperò, sapendo di dover lasciare marito e figli e dover tornare sui monti. Di tanto in tanto tornava la sera, per metter a letto i bambini, ma l'uomo si sedeva a tavola guardandola con tristezza. Ella lo pregò di andarsene ma lui non volle ubbidire, così lei seguitò a tornare invisibile al mondo. Solo i bimbi, prima d'addormentarsi, sentivano che gli rimboccava le coperte e li accarezzava, ma ciò durò solo fino la fine dell'anno e poi mai più.
- Leggende delle dolomiti 11 - Il pastore di Monte Cristallo
Sul Monte Cristallo, ora deserto e selvaggio, risplendeva una volta un castello che dominava la valle, abitato da una splendida principessa. Molti avevano aspirato alla sua mano, ma erano stati cacciati per non aver saputo risolver la richiesta di lei: raccontare una storia che la riguardasse, che fosse verosimile ma ch’ella non conoscesse.
Molte storie vennero raccontate, anche di splendide, ma troppo fantastiche. Quando poi i cavalieri iniziavano il racconto venivano osservati così intensamente dai meravigliosi occhi azzurri di lei che perdevano il filo del discorso. In più c’era sempre il cerimoniere di corte che, con abili domande, faceva cader in contraddizione chi fosse giunto a fine storia.
Un giorno la principessa udì cantare una bella canzone e chiese chi l’avesse composta. Era di “Bertoldo il matto”, un pastore che da quando la vide si innamorò pazzamente di lei, smise il lavoro e diventò poeta da un giorno all’altro; aveva anche provato a venir a corte, ma era stato respinto in quanto pastore. La principessa volle dare anche a lui una possibilità ed egli accorse. -Nobile principessa, quel che racconto è avvenuto in luoghi lontani da tutti i paesi della terra: nei campi dei beati.- così Bertoldo iniziò -tutti noi abbiamo vissuto lì un tempo felice, perché non sapevamo di doverci fare uomini tra stenti e sofferenze. Ciascuno aveva un dovere da compiere e voi eravate regina: i sudditi vi amavano per bontà e giustizia, ma ciò che più ammiravano erano i vostri occhi. A me toccò di fare il pastore e al mattino passavo sotto la vostra finestra suonando un’arietta allegra per darvi il buongiorno e questa era la mia gioia più grande. Un giorno arrivò un angelo ad annunciare che saremmo scesi sulla terra e s’informò su come ognuno avesse svolto il proprio compito. Tutti erano stati più o meno negligenti tranne voi ed io. L’angelo ci lodò e permise di esprimere un desiderio che sulla terra sarebbe stato avverato. Io vi ero accanto e, vedendovi, l’unico desiderio che sentii di chiedere fu che conservaste quegli occhi lucenti e meravigliosi. Voi per ricompensarmi chiedeste che venisse esaudito il maggior desiderio che io avessi avuto una volta sulla Terra. La mia preghiera è stata esaudita perché voi avete conservato quei celestiali occhi, ma se l’angelo abbia esaudito il vostro desiderio non lo so-
Il cerimoniere prese parola e riconobbe che il racconto riguardava la principessa, era un fatto ch’ella non conosceva ed era verosimile perché non si può sapere cosa è avvenuto nei campi dei beati…ma aveva una grande lacuna. Se tutti hanno vissuto lì, come mai nessuno ne ricorda tranne Bertoldo?
Il pastore fu calmo e sicuro nel rispondere -il ricordo di quei luoghi torna alla mente quando si rivede l’ultima cosa che lì si vide. Io come ultima cosa vidi gli occhi della mia regina e da quando li ho rivisti ho ricordato tutto di quei tempi felici!- Il cerimoniere ammutolì e per quanto pensasse non gli vennero domande per contraddire Bertoldo. La principessa porse la sua mano e con quel gesto gli donò il suo regno e se stessa. Il nome di Bertoldo è rimasto legato a Monte Cristallo, che ancor oggi gli Ampezzani chiamano Croda de Bertoldo (Rupe di Bertoldo).
Molte storie vennero raccontate, anche di splendide, ma troppo fantastiche. Quando poi i cavalieri iniziavano il racconto venivano osservati così intensamente dai meravigliosi occhi azzurri di lei che perdevano il filo del discorso. In più c’era sempre il cerimoniere di corte che, con abili domande, faceva cader in contraddizione chi fosse giunto a fine storia.
Un giorno la principessa udì cantare una bella canzone e chiese chi l’avesse composta. Era di “Bertoldo il matto”, un pastore che da quando la vide si innamorò pazzamente di lei, smise il lavoro e diventò poeta da un giorno all’altro; aveva anche provato a venir a corte, ma era stato respinto in quanto pastore. La principessa volle dare anche a lui una possibilità ed egli accorse. -Nobile principessa, quel che racconto è avvenuto in luoghi lontani da tutti i paesi della terra: nei campi dei beati.- così Bertoldo iniziò -tutti noi abbiamo vissuto lì un tempo felice, perché non sapevamo di doverci fare uomini tra stenti e sofferenze. Ciascuno aveva un dovere da compiere e voi eravate regina: i sudditi vi amavano per bontà e giustizia, ma ciò che più ammiravano erano i vostri occhi. A me toccò di fare il pastore e al mattino passavo sotto la vostra finestra suonando un’arietta allegra per darvi il buongiorno e questa era la mia gioia più grande. Un giorno arrivò un angelo ad annunciare che saremmo scesi sulla terra e s’informò su come ognuno avesse svolto il proprio compito. Tutti erano stati più o meno negligenti tranne voi ed io. L’angelo ci lodò e permise di esprimere un desiderio che sulla terra sarebbe stato avverato. Io vi ero accanto e, vedendovi, l’unico desiderio che sentii di chiedere fu che conservaste quegli occhi lucenti e meravigliosi. Voi per ricompensarmi chiedeste che venisse esaudito il maggior desiderio che io avessi avuto una volta sulla Terra. La mia preghiera è stata esaudita perché voi avete conservato quei celestiali occhi, ma se l’angelo abbia esaudito il vostro desiderio non lo so-
Il cerimoniere prese parola e riconobbe che il racconto riguardava la principessa, era un fatto ch’ella non conosceva ed era verosimile perché non si può sapere cosa è avvenuto nei campi dei beati…ma aveva una grande lacuna. Se tutti hanno vissuto lì, come mai nessuno ne ricorda tranne Bertoldo?
Il pastore fu calmo e sicuro nel rispondere -il ricordo di quei luoghi torna alla mente quando si rivede l’ultima cosa che lì si vide. Io come ultima cosa vidi gli occhi della mia regina e da quando li ho rivisti ho ricordato tutto di quei tempi felici!- Il cerimoniere ammutolì e per quanto pensasse non gli vennero domande per contraddire Bertoldo. La principessa porse la sua mano e con quel gesto gli donò il suo regno e se stessa. Il nome di Bertoldo è rimasto legato a Monte Cristallo, che ancor oggi gli Ampezzani chiamano Croda de Bertoldo (Rupe di Bertoldo).
- Leggende delle dolomiti 10 - Le nozze di Merisana
Nella Val Costeàna c’è una collina che un tempo si chiamava Col de la Merisana. Poco lontano vi scorre il Ru de ra Vèrgines, Torrente delle Vergini. I vecchi ampezzani raccontavano che avesse quel nome perché abitato dalle Ondine, abitatrici di acque e boschi, che sul mezzogiorno d’estate uscivano dal ruscello. La loro regina si chiamava Merisana e la sua sovranità si estendeva da monte Cristallo fino alle montagne azzurre dei Duranni. Gli alberi si chinavano e le ubbidivano, le onde si abbassavano quando si avvicinava a riva, aveva un grande potere ma era infelice: il pensiero che vi fossero sulla terra infinite creature sofferenti e non poterle aiutare rattristavano il suo cuor pietoso.
Accadde che il Rej de Ràjes (il Re dei Raggi) del regno dietro l’Antelao si fermò un giorno presso il torrente e gli parve di sognar ad occhi aperti scorgendo, per un solo istante, il dolce viso di Merisana. Passò un intero anno col pensiero di quel “sogno”, finché non ne parlò col re dei Lastojères che gli disse che non era un sogno ma sarebbe bastato andar a mezzogiorno per vederla. Così riuscì a conoscerla e parlarle e dopo solo sette giorni le chiese di sposarlo. Lei rispose ch’era ben felice di farlo, ma non poteva celebrar nozze finché ci fossero stati al mondo tanti infelici: prima avrebbe dovuto trovar modo di render tutti lieti. Nessun uomo avrebbe dovuto bestemmiare, né le donne lamentarsi, né i bimbi piangere, né gli animali soffrire. Il re si consultò coi suoi saggi ma non era fattibile. Dovette tornar indietro a chieder di rinunciare o limitare il desiderio. Merisana allora chiese che valesse almeno per un giorno, ma il re le fece comprendere che nemmeno questo era possibile. Merisana si rassegnò a limitare ancora la richiesta -il mezzogiorno è l’ora che più mi piace. A mezzogiorno ci sposeremo e almeno per un ora tutti saranno felici: uomini e animali, alberi e fiori!- Il re non poteva chiedere di più, così mandò notizia a uomini, animali, alberi e fiori che il giorno dopo ci sarebbero state le nozze del Rèj de Ràjes con Merisana e ogni pena sarebbe stata alleviata. Tutti si rallegrarono e per gratitudine le piante fecero sbocciare i fiori più belli e uomini e animali li raccolsero per portarli a lei. Fiori e le fronde furono così tanti che non si sapeva più dove metterli, così due nani della montagna li raccolsero e fecero un albero, il làrice. L’albero non aveva però vigore vitale, così Merisana si tolse il velo da sposa e lo posò sopra l’albero che inverdì e fiorì.
Il larice è un albero strano. È una conifera ma i suoi aghi non sono sempre verdi e in autunno ingialliscono e cadono come le foglie dei latifogli. Questo accade perché è un albero formato da piante d’ogni specie. Quando in primavera il larice si desta dal sonno invernale è facile distinguere attorno ai suoi rami, rivestiti di teneri sottilissimi aghi, il tessuto lieve del velo da sposa di Merisana.
Accadde che il Rej de Ràjes (il Re dei Raggi) del regno dietro l’Antelao si fermò un giorno presso il torrente e gli parve di sognar ad occhi aperti scorgendo, per un solo istante, il dolce viso di Merisana. Passò un intero anno col pensiero di quel “sogno”, finché non ne parlò col re dei Lastojères che gli disse che non era un sogno ma sarebbe bastato andar a mezzogiorno per vederla. Così riuscì a conoscerla e parlarle e dopo solo sette giorni le chiese di sposarlo. Lei rispose ch’era ben felice di farlo, ma non poteva celebrar nozze finché ci fossero stati al mondo tanti infelici: prima avrebbe dovuto trovar modo di render tutti lieti. Nessun uomo avrebbe dovuto bestemmiare, né le donne lamentarsi, né i bimbi piangere, né gli animali soffrire. Il re si consultò coi suoi saggi ma non era fattibile. Dovette tornar indietro a chieder di rinunciare o limitare il desiderio. Merisana allora chiese che valesse almeno per un giorno, ma il re le fece comprendere che nemmeno questo era possibile. Merisana si rassegnò a limitare ancora la richiesta -il mezzogiorno è l’ora che più mi piace. A mezzogiorno ci sposeremo e almeno per un ora tutti saranno felici: uomini e animali, alberi e fiori!- Il re non poteva chiedere di più, così mandò notizia a uomini, animali, alberi e fiori che il giorno dopo ci sarebbero state le nozze del Rèj de Ràjes con Merisana e ogni pena sarebbe stata alleviata. Tutti si rallegrarono e per gratitudine le piante fecero sbocciare i fiori più belli e uomini e animali li raccolsero per portarli a lei. Fiori e le fronde furono così tanti che non si sapeva più dove metterli, così due nani della montagna li raccolsero e fecero un albero, il làrice. L’albero non aveva però vigore vitale, così Merisana si tolse il velo da sposa e lo posò sopra l’albero che inverdì e fiorì.
Il larice è un albero strano. È una conifera ma i suoi aghi non sono sempre verdi e in autunno ingialliscono e cadono come le foglie dei latifogli. Questo accade perché è un albero formato da piante d’ogni specie. Quando in primavera il larice si desta dal sonno invernale è facile distinguere attorno ai suoi rami, rivestiti di teneri sottilissimi aghi, il tessuto lieve del velo da sposa di Merisana.
- Leggende delle dolomiti 9 - La moglie dell'Arimanno
Presso il lago di Fedaja, tra il ghiacciaio della Marmolada e le vette del Padòn, era accampato un drappello di contadini armati della Val di Fassa sotto il comando di un Arimanno (soldato di carriera). La sua sposa l’aveva raggiunto per passar la sera con lui e gli raccontò un sogno: -mi pareva d’aver ricevuto notizia che eri morto. Una Vivena (spirito buono di monti e boschi) mi venne incontro dicendo “tuo marito è vivo, ma a breve espierà il delitto commesso. Or son due volte sette anni, vicino a Cadrùn…”- L’uomo ammutolì, così che la moglie sospettò nascondesse qualcosa, ma lo rassicurò che per lei non sarebbe cambiato nulla. L’Arimanno le rivelò i fatti. Era ancor giovane quando un contadino lo mandò con l’amico Tita a vender bestiame a Bolzano. Sul ritorno avevano perso però quei soldi al gioco e non avevano coraggio di tornare. Disperati incontrarono il becchino di Fiè che gli disse che ogni volta che passava col carro da morto a mezzanotte sulla Sghiella i nani del luogo uscivano. I nani sono pieni d’oro e sarebbe bastato prenderne uno o affumicare la caverna dove si nascondevano per costringerli a uscire e dare l’oro. I due ragazzi decisero di seguire le indicazioni. Quando i nani uscirono li inseguirono fino a una caverna e la affumicarono chiedendo l’oro. Invano i poveretti piangevano di non aver nulla, loro non cedettero. All’alba entrarono nella caverna e c’erano 14 nani morti in un angolo, ma di oro nemmeno l’ombra. Atterriti per il delitto, piuttosto che tornar indietro si fecero soldati. Un giorno di quello stesso anno dovevano passar il bosco sulla Sghiella quando li raggiunse un omino grigio, alto nemmeno 4 palmi, magro come uno stecco, con una lunga barba ondeggiante che adirato additò Tita -tu morrai presto di morte senza gloria!- poi si voltò verso l’Arimanno -…e tu, fra due volte sette anni, perderai la cosa più cara al mondo!- Tita morì pochi giorni dopo, sentinella vicino a un torrente s’addormentò. I nemici lo sorpresero, legarono e gettarono in acqua. La maledizione dell’Arimanno era ancor sospesa. Mentre raccontava questo sentirono dei rumori. I nemici! Svegliò le truppe e salirono sul Padòn per raggiunger un altro drappello di Fassani. Si ritrovarono però in cima ai monti con le strade tagliate e le truppe nemiche dei Trusani a valle. Il nemico minacciava di incendiare gli alberi che arrivavano fino alla loro cima se non si fossero adattati alle loro condizioni e la moglie dell’Arimanno doveva far da intermediaria. Lui non voleva, ma i soldati la costrinsero. Le condizioni erano semplici. I Fassani potevano ritirarsi, se avessero abbandonato a morte l’Arimanno, che era il capo e l’unico soldato di professione. -Vedi la punta nord della vostra cima?- disse il capo dei Trusani -lui si metterà lì con un fazzoletto bianco al collo, così che lo si veda, e noi lo bersaglieremo di frecce finchè non cadrà!- Lei disperata lo disse in segreto al marito, suggerendo di non rivelarlo ai Fassani e morire tutti assieme combattendo, ma egli rifiutò. Gli Arimanni avevano giurato di dare la vita in difesa dei cittadini di Fassa e così avrebbe fatto. Chiese quindi alla donna il luogo su cui andare, ma lei voleva salvarlo, quindi gli indicò la vetta opposta. Al momento del distacco smise di piangere e per prima si ricompose -Addio. Vado a prender il fazzoletto che abbiamo dimenticato, te lo porto e poi andrò a casa- L’uomo rimasto solo si angosciava al pensiero di questa morte senza battaglia, quando sentì già il sibilo delle frecce. Lasciò il luogo correndo alla ricerca della moglie, pensando avrebbero potuto colpirla per errore, ma in quella sentì il grido di battaglia degli Arimanni! Le truppe avevano raggiunto il loro piccolo drappello e avevano scacciato i Trusani, ma l’aiuto era giunto tardi. La donna si era offerta in sacrificio e giaceva ai piedi della rupe col fazzoletto bianco annodato al collo. Ora riposava tra i rododendri e il primo sole che saliva da dietro le Alpi cingeva la sua fronte in una pallida aureola di luce.
- Leggende delle dolomiti 8 - Man de Fier
Osvald von Wolkenstein fu uno dei più famosi cantori delle Dolomiti e molte storie son narrate su suo conto. Una di queste storie narra che quand'egli era ancor bimbo, un'indovina predisse alla madre che s'egli avesse imparato a suonare la cetra sarebbe divenuto un grande cantore, ma avrebbe vissuto sempre infelice. La madre lo condusse allora dalle Gannes (abitatrici delle selve) e una di loro incantò le mani del figlio, in modo che non toccassero mai strumento senza romperlo.
Osvald crebbe e amò la musica, ma nessuno poteva insegnargliela, perchè distruggeva qualsiasi strumento, tant'è che iniziarono a chiamarlo Man de Fier (mano di ferro).
Un giorno, camminando in montagna, sentì dietro un cespuglio di rose bianche una musica soave, accompagnata da un canto ancor più dolce. Senza far rumore si avvicinò e vide una meravigliosa silfide. Si fermò ad ascoltarla per ore fino a sera. Quando anche l'ultimo raggio di sole si spense, con esso tutto scomparve. musica, canto, silfide e cespuglio di rose.. Ma il giorno dopo tornando di nuovo potè ascoltarla e cosi per giorni. Lei s'era accorta di Osvald e apprezzava la sua discrezione, fino quando fu lei a decidersi a parlargli dopo 7 giorni. Parlando lui le raccontò della sua passione ma della sua impotenza nel suonare e lei gli rivelò della stregoneria che incombeva su lui. -solo un gran dolore potrebbe scoglier l'incantesimo..ma un dolore cosi grande che sarebbe meglio davvero per te aver le mani davvero di ferro- le spiegò la ragazza.
Mesi più tardi Osvald rivelò alla madre di esser fidanzato ma alle domande di lei non seppe dire nemmeno che nome avesse, la giovane. Il giorno dopo lo chiese, ma invano -Com'io mi chiami non lo dirò mai, perchè se lo sapessi dovremmo separarci per sempre. Ti basti sapere che il mio luogo d'origine è il Giardino di rose di re Laurino, che ora non esiste più- La madre pensava che tra uomini e spiriti delle montagne non dovessero esserci affinità, ma non disse nulla. Furono mesi felici per Osvald, che alla fanciulla aveva dato tutto il suo cuore: un cuore semplice e ardente , di quelli che si danno una volta, e per tutta la vita.
Una sera, tornando dalla montagna che era ormai notte, vide un fuoco con delle Cristannes attorno. Sapeva che i Cristannes erano esseri selvaggi che abitavano gli angoli più inaccessibili dei monti e che di quei monti conoscevan tutti i segreti. Si accostò così a ascoltare e proprio in quel momento una Cristanna parlava di lui -la vecchia castellana di Wolkenstein ha fatto bene a incantar le mani del figlio, ma ora lui vuol sposare Antermoja e l'incantesimo andrà in fumo...- Antermoja! era felice di saper il nome di lei, finchè un giorno, parlandole, in un attimo di distrazione la chiamò per nome. La silfide pianse lacrime amare e tristemente gli disse addio, lasciando tra le sue mani la propria cetra, poi entrò nel cespuglio di rose e cantò una canzone che mai egli aveva da lei udito. Lui era paralizzato di paura, non sapeva che fare. D'improvviso si aprì una crepa dal suolo e iniziò a zampillare dell'acqua nera cosi abbondante che in un momento si formò un lago e nel lago sparirono fanciulla e rose. Per 3 giorni egli la cercò, ma invano. Al 3° giorno prese la cetra di Antermoja e volle provar a suonare.
Fu un canto stupendo di dolore uello che uscì dallo strumento. L'incantesimo era rotto, ma ogni gioia era finita. Per tutta la vita errò di terra in terra e di mare in mare, cercando pace d'animo e mai trovandola: in tutta la vita non ebbe più un'ora di autentica felicità, ma le canzoni furono meravigliose tanto che nessuno prima o dopo di lui suonò la cetra con arte così divina.
Osvald crebbe e amò la musica, ma nessuno poteva insegnargliela, perchè distruggeva qualsiasi strumento, tant'è che iniziarono a chiamarlo Man de Fier (mano di ferro).
Un giorno, camminando in montagna, sentì dietro un cespuglio di rose bianche una musica soave, accompagnata da un canto ancor più dolce. Senza far rumore si avvicinò e vide una meravigliosa silfide. Si fermò ad ascoltarla per ore fino a sera. Quando anche l'ultimo raggio di sole si spense, con esso tutto scomparve. musica, canto, silfide e cespuglio di rose.. Ma il giorno dopo tornando di nuovo potè ascoltarla e cosi per giorni. Lei s'era accorta di Osvald e apprezzava la sua discrezione, fino quando fu lei a decidersi a parlargli dopo 7 giorni. Parlando lui le raccontò della sua passione ma della sua impotenza nel suonare e lei gli rivelò della stregoneria che incombeva su lui. -solo un gran dolore potrebbe scoglier l'incantesimo..ma un dolore cosi grande che sarebbe meglio davvero per te aver le mani davvero di ferro- le spiegò la ragazza.
Mesi più tardi Osvald rivelò alla madre di esser fidanzato ma alle domande di lei non seppe dire nemmeno che nome avesse, la giovane. Il giorno dopo lo chiese, ma invano -Com'io mi chiami non lo dirò mai, perchè se lo sapessi dovremmo separarci per sempre. Ti basti sapere che il mio luogo d'origine è il Giardino di rose di re Laurino, che ora non esiste più- La madre pensava che tra uomini e spiriti delle montagne non dovessero esserci affinità, ma non disse nulla. Furono mesi felici per Osvald, che alla fanciulla aveva dato tutto il suo cuore: un cuore semplice e ardente , di quelli che si danno una volta, e per tutta la vita.
Una sera, tornando dalla montagna che era ormai notte, vide un fuoco con delle Cristannes attorno. Sapeva che i Cristannes erano esseri selvaggi che abitavano gli angoli più inaccessibili dei monti e che di quei monti conoscevan tutti i segreti. Si accostò così a ascoltare e proprio in quel momento una Cristanna parlava di lui -la vecchia castellana di Wolkenstein ha fatto bene a incantar le mani del figlio, ma ora lui vuol sposare Antermoja e l'incantesimo andrà in fumo...- Antermoja! era felice di saper il nome di lei, finchè un giorno, parlandole, in un attimo di distrazione la chiamò per nome. La silfide pianse lacrime amare e tristemente gli disse addio, lasciando tra le sue mani la propria cetra, poi entrò nel cespuglio di rose e cantò una canzone che mai egli aveva da lei udito. Lui era paralizzato di paura, non sapeva che fare. D'improvviso si aprì una crepa dal suolo e iniziò a zampillare dell'acqua nera cosi abbondante che in un momento si formò un lago e nel lago sparirono fanciulla e rose. Per 3 giorni egli la cercò, ma invano. Al 3° giorno prese la cetra di Antermoja e volle provar a suonare.
Fu un canto stupendo di dolore uello che uscì dallo strumento. L'incantesimo era rotto, ma ogni gioia era finita. Per tutta la vita errò di terra in terra e di mare in mare, cercando pace d'animo e mai trovandola: in tutta la vita non ebbe più un'ora di autentica felicità, ma le canzoni furono meravigliose tanto che nessuno prima o dopo di lui suonò la cetra con arte così divina.
- Leggende delle dolomiti 7 - Conturina
Conturina era una bellissima giovane, che aveva come matrigna una nobile e ricca signora, padrona di un castello e madre di due brutte figlie. Principi e cavalieri venivano a castello e tutti avevano occhi solo per Conturina, così che la matrigna, indispettita, le ordinò di tacere in presenza di ospiti, dicendo poi a tutti che era muta e stupida. Non importava: rimaneva l’unica ammirata. Le ordinò di star immobile, dicendo che era anche paralitica: anche così era l’unica apprezzata. Furente la matrigna chiamò una strega che la tramutò in statua di pietra, ma ancora tutti gli occhi erano per lei. La fece allora portare su un’altissima rupe che domina il Passo di Ombretta, che venisse infitta nella roccia e lì abbandonata.
Passarono gli anni e nessuno sapeva dove fosse finita Conturina, mentre si sparse voce che si sentiva un canto di donna in cima a quei luoghi abbandonati. Li sentì un giovane soldato che faceva sentinella sul passo e riuscì a capirne le parole. Lei cantava la propria triste storia. Egli gridò che si sarebbe arrampicato per liberarla, ma lei gli rivelò che era troppo tardi. Nei primi 7 anni la liberazione sarebbe stata possibile, ma ormai l’incantesimo era insolubile. Qualche volta, chi passi per quel deserto di rocce che è la Valle Ombretta ode ancor il mesto canto della povera Conturina. La canzone è quasi tutta perduta, ma se ne salva ancora una strofa che le donne che lavorano nei campi hanno sentito e imparato.
Son de sass e no me meve,
son de crepa en Marmoleda,
son na fìa arbandoneda
e no sé per che resòn.
[sono di sasso e non mi muovo, sono fatta di crepe sulla Marmolada, sono una figlia abbandonata e non so per quale ragione]
Passarono gli anni e nessuno sapeva dove fosse finita Conturina, mentre si sparse voce che si sentiva un canto di donna in cima a quei luoghi abbandonati. Li sentì un giovane soldato che faceva sentinella sul passo e riuscì a capirne le parole. Lei cantava la propria triste storia. Egli gridò che si sarebbe arrampicato per liberarla, ma lei gli rivelò che era troppo tardi. Nei primi 7 anni la liberazione sarebbe stata possibile, ma ormai l’incantesimo era insolubile. Qualche volta, chi passi per quel deserto di rocce che è la Valle Ombretta ode ancor il mesto canto della povera Conturina. La canzone è quasi tutta perduta, ma se ne salva ancora una strofa che le donne che lavorano nei campi hanno sentito e imparato.
Son de sass e no me meve,
son de crepa en Marmoleda,
son na fìa arbandoneda
e no sé per che resòn.
[sono di sasso e non mi muovo, sono fatta di crepe sulla Marmolada, sono una figlia abbandonata e non so per quale ragione]
- Leggende delle dolomiti 6 - L'usignolo del Sassolungo
Ai piedi del Sassolungo abitava la figlia di un re. Un giorno scacciò uno sparviero che volava attorno a un cespuglio, immaginando vi fosse un nido, vide infatti un usignolo spaventato. Contenta d’averlo salvato stava per andare quando costui le parlò in lingua umana -mi hai salvato e voglio provarti la mia riconoscenza. D’ora in poi potrai divenire usignolo quando vorrai. Solo la morte di una persona potrà farti perdere questo dono- L’usignolo volò via e lei tornò a castello domandandosi alla morte di chi potesse alludere. Al tramonto provò: desiderò esser usignolo e la magia avvenne. Volò per tutto il giardino e cantò. Uscì un gorgheggio così soave e dolce che mai se ne erano sentiti di simili. Nei giorni prese coraggio e iniziò a volar per tutta la valle. Ascoltava i discorsi degli altri animali, che ora comprendeva. Una sera si nascose da un gruppo di corvi e sentì i loro discorsi. Parlavano di un cavaliere che abitava in un castello mezzo rovinato vicino la Val Gardena, in una foresta chiamata Vallenosa. Un ottimo cacciatore, ma che non usciva mai dalle sue terre e nulla sapeva del mondo, tant’è che non aveva mai visto una donna! La ragazza fu curiosa, così la sera dopo arrivò sin li. Cantava e gorgheggiava, quando il cavaliere si fermò guardando in sua direzione. Lei ammutolì, ma egli gridò -Il tuo canto è bello, non fermarti!- La principessa felice ricominciò i suoi trilli e tornò diversi giorni, cantando per lui. Ogni volta l’uomo interrompeva i suoi lavori e restava ammirato in ascolto. Un giorno egli si recò da un Salvàn (nano della montagna) dalla fama di grande saggezza e gli disse d’esser malato. La caccia non lo attirava più, si sentiva triste e solo il canto di un usignolo del vicino bosco gli dava gioia, ma quando l’usignolo taceva, si disperava. Il Salvàn allora prese un cristallo di rocca e ci guardarono dentro -ho capito il tuo male! Se sei malato la colpa è di una donna! Sei innamorato e io non posso far nulla per te!- Il cavaliere se ne andò sconsolato. Non aveva mai nemmeno visto una donna, quindi gli pareva impossibile. Quando sentì di nuovo cantare, però, in cuor suo ne ebbe certezza. Gridò con passione -il Salvàn ha ragione: tu sei una donna!- Ma la principessa spaventatissima volò via e a nulla valsero le preghiere dell’uomo. Lei non tornò più e iniziò a volar per altre valli. Un giorno rischiò di esser presa da un falco e si riparò in un cespuglio. Quando fu protetta, parlando con un vicino agnello accusò di ferocia e crudeltà il falco. -Con qual diritto accusi gli altri? Anche tu hai ucciso! Va a castello di Vallenosa e vedrai..- La principessa morsa da angoscia vi andò. Il cavaliere giaceva morto ai piedi della torre. Sconvolta tornò dritta verso casa, afflitta e stanca. Volle tornar umana ma per quanto lo desiderasse non vi riuscì…solo allora ricordò la profezia. Da quel giorno visse come usignolo nei boschi ed ancor si ode, talvolta, un canto di usignolo tanto meraviglioso quanto triste. E’ il canto della principessa stregata del Sassolungo.
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